TESTI



RAI 2°

  II labirinto dell'arte: come si esce?
“Guai ai critici dell'arte, dopo lo "splash" nel Fosso Reale di Livorno di una pietra in­cisa con il Black & Decker da quattro stu­denti in vena di scherzi. E allora parlare di arte moderna e delle sue tendenze diventa un rischio per chi non si richiamasse a mo­delli culturali del passato e che non rivives­se attraverso il proprio linguaggio artistico una cultura e una civiltà che hanno lasciato dei segni e dei messaggi nel corso dei secoli.
Quando l'Ecclesiaste ammonisce che "non c'è nulla di nuovo sotto il sole", vuol far comprendere che nell'esperienza dell'uo­mo, dell'umanità, è già avvenuto tutto quel­lo che viviamo e osserviamo ai nostri giorni.
Soltanto chi riesce a calarsi in questo grosso calderone rappresentato dal passa­to e ha la capacità di attingere cose non co­nosciute da altri può dirsi originale e viene salutato come un genio ed esaltato come tale.
Non vogliamo qui tirare in ballo il buon Pla­tone che aveva piazzato in un luogo ben pre­ciso dello spazio, l' “iperuranio", tutte le idee che poi dalla Terra gli uomini cercano di re­cuperare e riutilizzate, perché poi il discor­so diventerebbe troppo pesante, un matto­ne, come si dice in simili casi.
Ma è il caso di chiedersi se parlando di argomenti come il labirinto non si vada a ri­tirare fuori un modello che appartiene alla spiritualità umana da sempre.
La mitologia greca ha individuato nella vi­cenda di Dedalo, il grande architetto chia­mato a costruire una "gabbia" per il mostro Minotauro, realizzatore del labirinto, un sim­bolo preciso della capacità dell'uomo di di­venire prigioniero di se stesso se non trova
la possibilità di Utilizzare la ragione, che gli consenta di trovare la strada giusta per usci­re dall'intrico di strade, stanze e corridoi che costituiscono il labirinto. Quando Teseo, vie­ne chiamato a mettere fine all'inutile olocau­sto di vittime innocenti offerte al Minotauro, troverà appunto nella ragione, identificata nel filo di Arianna, la sua forza per portare a ter­mine l'impresa.
L'uomo da allora è sempre perso in un la­birinto, esposto a mostri più o meno terribili come la guerra, la fame, la peste, la morte; da allora cerca disperatamente di trovare la via di uscita. Nell'impossibilità, spesso, di tro­vare al momento giusto il proprio filo di Arian­na, ricorre allora a manifestazioni dello spi­rito di vario tipo: l'espressione artistica at­traverso la pittura, la scultura, la letteratu­ra, la musica, la danza, e così via, fino alle più moderne e attuali arti visive in cui l'im­magine è andata acquistando la preminen­za rispetto alla parola.
Si assiste così alle imprese di tanti novel­li Icaro che si avventurano nell'impresa di "volar senza ali", come direbbe Dante, o di volare con "ali attaccate con la cera" che si scioglie al calore del sole verso cui si tenta invano di indirizzarsi alla ricerca dell'asso­luto. E si precipita ahimè miseramente, an­che se molti sono coloro che riescono a vo­lare o a realizzare il proprio sogno di uscire finalmente dal labirinto.
Ci proviamo anche qui, ora, da Via De Amicis ad uscire dal labirinto di parole in cui abbiamo voluto cacciarci, mettendo punto al nostro volo, prima che le ali vengano dissolte dal sole.
Un discorso che porta lontano e che la­sciamo a mezzo in attesa di avere a dispo­sizione un filo di Arianna che ci conduca al­l'uscita dopo aver ucciso i mostri che tor­mentano la nostra esistenza.
Un giovane artista, Stefano Ianni, 20 an­ni, originario de L'Aquila, ha allestito quest'e­state a Montesilvano una mostra di pittura - scultura - grafica - fumetti, dal titolo emble­matico "Cavallinità e Labirinti". È un Ica­ro anche lui?
Sentiamo dalle sue parole il significato del­la sua attività artistica.

Intervista a Stefano Ianni Trasmissione RAI 24 sett.
D. - Il labirinto ha sempre rappresentato per l'uomo la insondabilità dello spirito ci si perde e ci si ritrova soltanto coi della ragione. Perche una mostra sui labirinti, Stefano?
R. - II labirinto rappresenta la visione simbolica della vita: un insieme di strade interrotte, continui percorsi senza uscita da cui si può uscire dall'unica porta possibile, la ragione. Questa mostra sta a simboleggiare il tentativo di cercare di uscire da una serie di insoddisfazioni e di sconfitte esistenziali attraverso la ragione.
D. - Che significato ha il termine Cavallinità in relazione al discorso sui Labirinti.
R. - La visione del cavallo è palesemente idealizzata, comporta ciò un insieme di vincoli simbolici come l'armonia, la libertà e la dinamicità. Quest'immagine del cavallo idealizzata funge da elemento chiave per il discorso dei labirinti, i simboli che essa porta, come ad esempio quello della libertà, sta a significare il tentativo di uscire dalla routine dei problemi della vita.
D. - Un artista si può esprimere in tanti mo di, perche ha scelto tra le altre forme di linguaggio il fumetto, una delle più immediate manifestazioni di comunicazione attraverso immagini e parola scritta?
R. - È da premettere che il fumetto è stato uno dei tanti modi per esprimermi e non di certo l'unico. Rimane, comun­que, a mio parere, una tappa fondamen­tale per ogni artista per esprimere ironi­camente ed in modo spicciolo le sue im­pressioni sulla vita e sui fenomeni di tut­ti i giorni.
D. - Che spazio c'è secondo lei per riuscire a trasmettere messaggi comprensibili agli al­tri, in una società dove è sempre più diffici­le riuscire a comunicare e ad aggregarsi sen­za sollecitazioni collettive?
R. - Innanzitutto c'è bisogno di uno spa­zio proprio, personale, possibilmente uno studio appartato e silenzio, dove poter la­vorare o preparare un certo messaggio.
Per quanto riguarda la possibilità di esporre e comunicare questo messaggio, a mio parere, c'è molto bisogno di aper­ture, a queste iniziative, da parte degli En­ti Locali.
D. - Stefano, quali sono le tue prospettive future?
R. Per ora sono iscritto all'Accademia di Belle Arti a Firenze.
A parte qualche lavoro su commissio­ne, continuerò, come impegno di fondo, ad esplorare il mondo della "cavallinità" e dei "labirinti" ed a proporre, di tanto in tanto, gli esiti del mio lavoro in altre even­tuali esposizioni.

Servizio di Carmelita Assetta -in onda il 24.9.1984






“...Vi è, per così dire, una duplicità di per­corso negli esiti che questa mostra consen­te di ammirare: su un versante, una pronun­cia figurativa che cattura e campisce, ora ad occhio ora specularmente, transiti di pae­saggio e cifre del reale esemplate in forme di animali, in evocazione di miti, in innesti di mondi equorei e sommersi; su un altro, il procedere tutto moderno d'un fare tra oniri­co e visionario che scompone e astrae, ca­povolge e riassembla frammenti e reperti in una visione surreale, allusiva, polivalente. Talora, nelle felici impennate, i due percorsi si incrociano a rifondere le urgenze fantastiche con le tracce, in ogni caso sobrie e attutite, della realtà empirica e fattuale.
Difficile oggi predire quale sarà il territo­rio in cui Ianni inscriverà gli autonomi svi­luppi della sua arte; difficile antivedere se in lui prevarrà una personalità di pittore o una vitalità di scultore. Il critico non può che pren­dere atto, annotare, seguire. E allora occor­re dire che la sua più recente produzione — pittura soprattutto, ma anche disegno acque­rellato, anche grafica pura — scaturisce da una sensibilità che sin dagli inizi rifiuta il gra­tuito e annette al mestiere importanza e ruolo che i giovani, per pigrizia o imperizia, il più delle volte stentano a riconoscere o ricusa­no di sperimentare.
Due sono le proposte tematiche che me­glio si identificano e quasi anzi si impongo­no come riverberi canonici del suo genero­so travaglio: l'immagine del cavallo, con tutto quello che di storico e mitologico essa evo­ca, e l'immagine della conchiglia marina os­servata e liberamente interpretata in una cangiante nudità formale e tonale. Ne sono venute due serie di opere cronologicamen­te parallele: una prima, in cui prevale il graphos appena segnato di colore, di piccole di­mensioni; una seconda, più propriamente pit­torica, di più dilatato respiro. La tavolozza è calda, elementare, senza squilli; la scan­sione emerge per scarne linee; la tecnica, di varia ascendenza (è presto per dare dei rimandi), rivela bravure che fanno pensare a una mano adulta. Tutto insomma concor­re a legittimare l'attesa di un franco cammi­no...”

Pasquale Maffeo, dal catalogo delle per­sonali di Montesilvano e Roseto, 1984




Cavallinità e labirinti

Negli sviluppi recenti, sostanzialmente segnici, nella ricerca pittorica di Stefa­no Ianni, se due sono le polarità iconico-formali, quella relativa al tema della “cavallinità”, in realtà i più intimi motivi costitutivi mi sembrano evidentemente questi. Anzitutto (primo, dunque) un esplicito principio metamorfico che presie­de la formazione complessiva dell'immagine coinvolgendovi il destino di ogni determinazione strutturale, come nei “labirinti” o risolvendovi il rapporto fra re­siduale presenza iconica, quando questa sussista (il cavallo, quale figura vitale simbolicamente anche mitica, quasi per Ianni come lo fu per Mare) e ambiente.
Naturalmente subito dopo (secondo motivo) proprio una strutturazione tipi­-
camente segnica dell'immagine stessa complessiva, nel senso di un risolversi di
tale configurazione metamorfica in scrittura pittorica la cui natura è appunto tut­ ta ordita in quanto segno-colore (a volte con una singolare quanto fortuita asso­
nanza con il metodo delle «Siciliane» di Cagli, non a caso di crescita strutturale
quasi per gemmazione automatica del segno cromatico). 
Infine (terzo motivo) il rendersi evidente, entro tale trama strutturale segni­ca metamorfica, di pressioni di ordine psichico liberatorio, determinanti i modi della scrittura pittorica stessa. Se ciò può apparire in certo modo subito più plau­sibile nel caso di «labirinti», la cui rispondenza interiore è quasi in un ordine di simbologia tradizionale, il rapporto fra residuale presenza iconica e ambien­te, e la scelta stessa di tale presenza iconica (il cavallo, appunto), potrebbero suggerire addirittura un contesto naturalistico. In realtà il contesto è invece, an­che in questo caso, eminentemente simbolico e simbolica è infatti sempre la par­tenza stessa della costituzione dell'immagine nella pittura di Ianni. Processo che si rivela in realtà dunque decisamente piuttosto di analisi interiore che non natu­ralistico.
Voglio dire che nell'immaginario di Ianni non si pongono situazioni di natu­ra, otticamente dialogata, ma situazioni sostanzialmente simboliche: il cavallo appunto quale presenza di un'idea quasi cosmica di vitalismo della natura. Vita­lismo che si esplica in effetti in un sostanziale dinamismo del contesto struttura­le segnico del dipinto (e questo, volendo, potrebbe risultare anche un quarto motivo costitutivo, costante). E tuttavia la radice fondante di tale simbolismo è appunto chiaramente introspettiva.
Attraverso il contesto segnico metamorfico (come è chiaro naturalmente nei «labirinti»), in realtà si rivela la registrazione di un itinerario di sondaggio inte­riore, ove l'immaginario segnico-cromatico, di vivacissima proiezione fantastica, negli esiti migliori, acquista uno spessore di motivata necessità in senso euristi­co, come esplorazione scoperta di circostanze e situazioni che si manifestano sì nel contesto segnico cromatico, ma che si giustificano in quanto pulsioni irrefrenabili e direi persino in certo modo incontrollabili.
Per comprendere tutto ciò occorre tenere presente che il retroterra di que­ste nuove proporzioni del giovanissimo Ianni (presentate all'inizio della prima­vera 1987 in “Alternative Attuali Abruzzo '87”, nel Castello Spagnolo all'Aqui­la, e in seguito altrove) è di esperienze esplicitamente iconiche surreali, esatta­mente di allarmante metamorfosi surreale di situazioni simboliche (come si pre­sentò, per esempio, nel 1985 in una personale a Silvi Marina). E non è un caso se in quei dipinti, del 1984 e '85, un tema insistente vi risultasse la finestra inferriata, ma le cui sbarre erano appunto in situazione di fusione, o di esplodente frattura. Dunque una sollecitazione di liberazione chiaramente configura­ta in tale simbolica circostanza iconica. E questa liberazione mi sembra ora si sia definita appunto in scrittura pittorico-segnica, in un duplice modo: di libera­zione dal limite iconico-simbolico, appunto in tale scrittura segnico-cromatica (particolarmente evidente nei temi di “Cavallinità”); e di liberazione di pulsioni canalizzate nel processo metamorfico del contesto segnico-cromatico in senso automatico (particolarmente evidente nei temi di «labirinti».
Il raggiunto margine di automatismo della scrittura pittorica segnica conqui­stato recentemente dall'immaginario di Ianni garantisce cioè un esito liberato­rio, che è esattamente della libertà di un'esplorazione psichica, entro una di­mensione immaginativa che coinvolge energie vitali ed echi cosmico-naturali in un contesto di percezioni molto diramate, ma che sostanzialmente involvono l'io individuale in un tutto vitalistico che lo assorbe.
Ed è di questa particolare condizione di felice disagio psichico che i dipinti, anche i più recenti di Ianni, mi sembra si facciano vivida e convincente testimo­nianza.
Enrico Crispolti 1987






UN LIBERO CONFRONTO DI ESPERIENZE
PAOLO BARATELLA STEFANO IANNI
Un incontro fra due generazioni: due esperienze diversissime, due diversissime provenienze, due differenti destini. Baratella viene dalla linea della "figurazione critica" degli anni Sessanta, alla quale è rimasto tuttora caparbiamente quanto profiquamente fedele, così da costituire un rilevante fatto, non soltanto Italiano: come altrimenti, e con altri umori, in particolare un Vacchi. Ianni è un giovanissimo che si muove in termini che potremmo dire di "figurazione onirica", attratto da varie tentazioni, fra le quali si destreggia alla ricerca non facile di una propria identità. Baratella, ferrarese, opera a Milano da sempre, è dunque tipicamente metropolitano, legato alla conflittualità sociale ed ideologica della Milano degli anni della contestazione e poi della strategia della tensione, Ianni vive fra L'Aquila e Firenze, e dunque ha anche un problema di radicamento nel riconoscimento di un proprio territorio originario. Il primo è vistosamente espressionista, ma non in un'esasperazione personalistica, quanto in una coralità corrispondente all'universo delle mitografie di massa, e opera in un'accesissima visionarietà, entro la quale convoca appunto icone dell'immaginario collettivo quanto risultanze storiche. La sua immaginazio­ne è fortemente teatralizzante. Il secondo è sostanzialmente un lirico, lavora su una sfera d'immaginazione privata, insegue propri sogni di corrispondenza psicologica.
Naturalmente in incontro fra due generazioni significa una sfalsatura storica inevitabile, considerando quanta acqua sia passata sotto i ponti del meno giovane rispetto alla situazione assottigliata del giovanissimo; e dunque tendere a tentare un confronto più sulla presenza delle opere che non certo sullo spessore delle esperienze che le motivano. Ma è anche un modo non molto consueto nel costume critico italiano, che preferisce chiudere il discorso in brevi aggruppamenti, spesso noiosamente iterati sotto le più svariate etichette, o tentare collegamenti soltanto in funzione di una motivazione molto spesso di affrettata storicizzazione del più giovane tramite il meno giovane, o il maestro. Mentre qui in fondo il confronto è liberamente aperto, in certo modo persino casuale, non ha sottintese ragioni, ma si apre soltanto alla lettura di due episodi nei ventaglio del possibile. E così forse sarà proprio l'intrinseca lettura delle opere a farla da padrone. Una volta tanto!


BARATELLA
L'origine ideologico-immaginativa di Oh specchio delle mie brame! è del 1984 nella ammissione di Winston Smith, il protagonista di 1984 di George Orwell, che due più due fa cinque, quale segno di massima perdita, imposta, d'identità. Tuttavia intesa anche, da Baratella, tale condizione come apertura di speranza di un possibile rovesciamento in una liberazione incredibile (Baratella mi cita Lewis Carroll), iniziando così appunto l'esplorazione del ribaltamento dunque praticabile d'ogni concetto.
In un recente dialogo precisa: "Winston Smith, protagonista di 1984, ha commesso il più terribile dei crimini, appunto lo psicoreato, che si configura come dubbio sulla esattezza dei comportamenti delle istituzioni. Un mondo, quello descritto da Orwell, totalmente privo di possibilità per l'individualità, poiché il reato ha la stessa forma della legge: il bipensiero (doublethink) regge la contraddizione. Winston dovrà ammettere che 2+2=5. Una esplosione nel cervello sottolineerà l'avvenuta espropriazione della sua coscienza. Il momento della coniugazione è questo. Nell'impero della ideologia di morte, lo per sopravvivere, chiedo e do speranza. A un mondo ossessivo oppongo un mondo dove il soggetto affronta autonomamente i rischi di un percorso esistenziale".
All'origine Baratella si riconosce dunque nell'intuizione di Orwell " che con grande senso della storia ha creato il clima del nostro vissuto sociologico, del nostro inconscio collettivo". "Credo che mai come ora la volontà degli individui, la loro libertà sia stata tenuta in poco conto. L'annichilimento delle aspirazioni al cambiamento, l'abolizione della memoria storica, la correzione della storia sono le cifre dell'epoca descritta da Orwell. Cosa c'è di diverso in questa nostra realtà? Viviamo con l'angosciosa memoria di un'immagine futura: il fungo atomico".
Permane fra II 1984 & l'Officina Ferrarese e Oh specchio delle mie brame! il topos delle macerie, ma nel primo il riferimento è al dopo la bomba, mentre nel secondo è al potere nella sua atavica ineluttabile violenza sull'uomo. Baratella ritiene Vorrei e non vorrei 1982, il 1984 & l'officina ferrarese, 1983, e Oh specchio delle mie brame! da intendere come parti di una tribgia che costituisca una sequenza unica, vissuta da Baratella nel lavoro di tre anni. Il presupposto ne è in realtà chiaramente quello che corre nella sua pittura da metà degli anni Sessanta, sottolineato nella tematizzazione di cicli e nella conseguente intitolazione delle mostre. "Malgrado questa differenziazione di titoli, quindi di cicli di opere, direi che c'è un ciclo continuo che è inarrestabile che nasce dalla profonda convinzione che la violenza che l'uomo esercita sull'uomo deve cessare"; ci avverte in un altro dialogo, su Vorrei e non vorrei.
In questo senso Baratella ha lavorato, in vent'anni, e lavora tuttora, sulla contingenza storica, quando utilizzandone direttamente le immagini di cronaca nell'immaginario collettivo, quando ricercandone indirette corrispondenze in assunzioni emblematiche dal patrimonio iconico del passato, e lavorando comunque sopratutto all'accentuazione parossisticamente insurrezionale della frizione nella loro rivelatoria contaminazione. Violenza manipolatela dunque come difesa contro violenza conculcatoria. La prospettiva è stata, ed è, del riscontro sottinteso con la riaffermata fiducia in "grandi idealità di giustizia universale", che rimangono il presupposto ideologico implicito della passionalità "civile" di Baratella: naturalmente con tutta chiarezza del Baratella di maggior f uror visionario, ma anche di passaggi più indiretti e di più remoto e ambiguo scandaglio come nel caso del ricomposto Oh specchio delle mie brame!.
Sempre nel dialogo sul suo dipinto del 1982 leggiamo: "I concetti e le immagini che manipolo mi vengono consegnati dagli specialisti della storia; è materia prima con tanto di garanzia. Lo stravolgimento che su di essa opero è tentativo di riconversione di tali materie ai grandi temi, alle grandi idealità di giustizia universale. Ogni altra soggettività va sotto il nome di vitalità creativa o "creatività". Nella ragione ideologicamente appunto presupposta, di tali idealità la pittura di Baratella avanza la propria contestazione, rinnova il proprio "no", quale estremo atto appunto di difesa, di risarcimento, di affermazione d'una possibilità di risarcente eversione contro la violenza individualmente alienante del sistema. Un suo dipinto esposto nel 1963, che utilizzava a Collage da giornali l'immediatezza della cronaca, pronunciava già netto appunto un "no" iscrittovi in stampatello, come su un muro. Ed è lungo oltre vent'anni orientamento costante del suo comportamento di pittore (e di uomo). Qui in Oh specchio delle mie brame! la possibilità eversiva risiede nell'atteggiamento liberatorio affermato rispetto alla storia (che è storia del potere). E* la sua utopia. Per II 1984 & l'officina ferrarese l'utopia è certo stata anche la proiezione visionaria quasi fantascientifica. Ma nel nuovo grande dipinto del 1984 l'utopia è sopratutto invece contenuta nella rinnovata fiducia nella possibilità liberatoria dello scarto eversivo. Come dice nel dialogo sul dipinto orwelliano: "ho pratico la dimensione dell'utopia con l'animo di chi nega che questa realtà sia l'unica praticabile". E in Oh specchio delle mie brame! la realtà indicata è quella dell'eminenza storica del potere costituito, riportato tuttavia ai riscontri di profondi scandagli d'archetipi psichici, e non soltanto appunto il potere sovrano.
Qui dunque la confutazione e negazione, anzitutto, delle verità dogmatiche, come dimensione tipica dell'esercizio straniante e violento del potere. Quella confutazione vi si forma sulla convinzione che sia possibile definire, inventare, dice Baratella, nuovi schemi liberi di etica morale e politica, negando il collegamento storico. E in questo senso tale confutazione apre appunto prospettive di liberazione. La sola verità che ci si rivela e che si afferma è la perversione del meccanismo che regge il sistema; e che appunto il gioco degli specchi, chiave di lettura del dipinto, immaginativamente ci svela. La rivelazione è l'evidenza del circuito storico i cui termini si propongono nel potere sovrano, l'uomo vittima sacrificata, e la natura deposta. E la rivelazione
avviene attraverso gli occhi del personaggio che, come Edipo, vede con gli occhi della sapienza, Baratella sottolinea, appunto della conoscenza apollinea (enigmatica).
Il problema centrale di questo nuovo grande suo dipinto Baratella stesso me lo indica sinteticamente così: a) il bisogno di conoscenza, e la questione dell'origine della sapienza; b) l'origine del comportamento riscontrabile a livello di archetipi; e) nella sospensione del giudizio. Atteggiamento quest'ultimo che va inteso, mi sembra, proprio come rinuncia alla in certo modo catartica rivalsa di parossismo visionario liberatorio che sì poteva verificare, in tutta la sua intensità, negli altri due grandi dipinti della sequenza probabile dei maggiori esiti di questi tre ultimi anni di suo lavoro. Qui è sospesa l'univocità del giudizio, non direi tanto il presupposto ideologico della sua necessità. E ciò proprio qui in funzione dell'attesa, quasi degli esiti di quello scandaglio profondo che la "bonaccia" apparente delie immagini di questa singolare e composita "pala" può in certo modo far supporre. Non si tratta infatti qui di travolgere insurrezionalmente degli emblemi ostili, ma di riconoscersi nella realtà profonda di archetipi di prospettiva antropologica storica, e tuttavia ancora socialmente determinanti, quanto di natura psichica presente e insieme remota.
Infine: come collocare la pittura di Baratella, oggi? Chiaramente il suo fare pittorico suggerisce una possibilità di dimensione della pittura "d'immagine" ben al di fuori dai termini di una risoluzione meramente istintuale, e a favore invece di una prospettiva di figurazione concettualmente (e di qui anche, pur alla lontana, ideologicamente) mediata. Il suo è un esempio rilevante, a scala europea almeno, dì recupero oggi delle valenze concettuali della pittura, entro appunto una pratica di questa che non saprebbe non darsi come eminentemente e direi imprescindibilmente d'immagine; ma al di là, beninteso, della rastremazione della vicenda "concettuale". In questo senso Baratella restituisce piena fiducia ad una pittura di coralità allegorica, ad una pittura che sia anche sollecitante stimolazione di riflessione, di idee, e di comportamenti; al di là beninteso comunque anche in questo caso di oggi limitazione all'estemporaneità fisica del "comportamentismo" (benché abbia realizzato nel 1978 e 79 due eventi d'azione teatrale). Certo la sua non è pittura contemplativa, né lo è mai stata, del resto, per chiara vocazione, fin dall'esordio all'inizio degli anni Sessanta (organistico allora, in certo modo, ma poi subito chiaramente contestatorio, s'è detto ora), ma oggi non è neppure pittura meramente d'emotività visionaria rivelatoria. La sua "rivelazione", il suo svelamento (un ruolo che Baratellla ha dichiarato tipico del proprio fare pittorico esplicitamente nel 1970-71 intitolando un proprio grande dipinto chiave di allora... Come se mi alzassi e prendessi coscienza...) Lo compie in immagine, certo, ma appunto qui più che mai su un terreno palpabile di provocazione riflessiva in termini di idee, di rielaborazione concettuale, di concetti dunque, se si vuole, e di suggestione comportamentale concettualmente indotta (sia pure naturalmente attraverso strumenti di provocazione in modi di immaginario pittorico).
Non si pone infatti tale svelamento in altri termini che come azione indotta. Non però perché collochi, in qualche modo, lo spettatore al centro del quadro, e lo suggestioni quindi al massimo livello di parossismo emotivo di contaminazione eidetica (come ha fatto Baratella negli anni Settanta). Ma perché quello spettatore-lettore induce a ripercorrere, senza scampo (pena il totale agnostico fraintendimento, cioè il suo essere irrimediabilmente perduto), tutta la dinamica semiologica dell'avventura rivelatoria (e direi persino monitoria) che costituisce la lettura-penetrazione del-nel grande teatro di segni iconici istituito dalla complessa proposizione pittorica Barateiliana.
I ANNI
Negli sviluppi recenti, sostanzialmente segnici, della ricerca pittorica di Stefano Ianni, se due sono le polarità iconico-formali, quella relativa al tema della "cavallinità", in realtà i più intimi motivi costitutivi mi sembrano evidentemente questi. Anzitutto (primo, dunque) un esplicito principio metamorfico che presiede la formazione complessiva dell'immagine; coinvolgendovi il destino di ogni determinazione strutturale, come nei labirinti", o risolvendovi il rapporto fra residuale presenza iconica, quando questa sussista (il cavallo, quale figura vjtale simbolicamente anche mitica, quasi per Ianni come lo fu per Marc) e ambiente.
Naturalmente subito dopo (secondo motivo) proprio una strutturazione tipicamente segnica dell'immagine stessa comples­siva, nel senso di un risolversi di tale configurazione metamorfica in scrittura pittorica la cui natura è appunto tutta ordita in quanto segno-colore a volte con una singolare quanto fortuita assonanza con il metodo delle "Siciliane" di Cagli, non a caso di crescita strutturale quasi per gemmazione automatica del segno cromatico).
Infine (terzo motivo) il rendersi evidente, entro tale trama strutturale segnica metamorfica, di precisazioni di ordine psichico liberatorio, determinanti i modi della scrittura pittorica stessa. Se ciò può apparire in certo modo subito più plausibile dei "labirinti", la cui rispondenza interiore è quasi in un ordine di simbologia tradizionale, il rapporto fra residuale presenza iconica e ambiente, e la scelta stessa di tale presenza inconica (il cavallo appunto), potrebbero suggerire addirittura un contesto naturalistico. In realtà il contesto è invece anche in questo caso, eminentemente simbolico, e simbolica è infatti sempre la partenza stessa della costituzione dell'immagine nella pittura di Ianni. Processo che si rivela in realtà dunque decisamente piuttosto d'analisi interiore che non naturalistico.
Voglio dire che nell'immaginario di Ianni non si pongono situazioni di natura, otticamente dialogata, ma situazioni sostanzialmente simboliche: il cavallo appunto quale presenza di un'idea quasi cosmica di vitalismo della natura. Vitalismo che si esplica in effetti in un sostanziale dinamismo del contesto strutturale segnico del dipinto (e questo, volendo, potrebbe risultare anche un quarto motivo costitutivo, costante). E tuttavia la radice fondante di tale simbolismo è appunto chiaramente introspettiva.
Attraverso il contesto segnico metamorfico (come è chiaro naturalmente in particolare nei "labirinti") in realtà si rivela la registrazione di un itinerario di sondaggio interiore, ove l'immaginario segnico-cromatico, di vivacissima proiezione fantastica, negli esiti migliori, acquista uno spessore di motivata necessità in senso euristico, come esplorazione-scoperta di circostanze e situazioni che si manifestano sì nel contesto segnico e cromatico, ma che si giustificano in quanto pulsioni irrefrenabili e direi persino in certo modo incontrollabili.
Per comprendere tutto ciò occorre tenere presente che il retroterra di queste nuove proposizioni del giovanissimo Ianni (presentate all'inizio della primavera 1987 in Alternative Attuali/Abruzzo '87 nel Castello Spagnolo a L'Aquila, e in seguito altrove) è di esperienze esplicitamente iconiche surreali, esattamente di allarmante metamorfosi surreale di situazioni simboliche (come si presentò, per esempio, nel 1985 in una personale a Silvi Marina). E non è un caso se in quei dipinti, del 1984-'85, un tema insistente vi risultasse la finestra inferriata, ma le cui sbarre erano appunto in situazione di fusione, o di esplodente frattura. Dunque una sollecitazione di liberazione chiaramente configurata in tale simbolica circostanza iconica. E questa liberazione mi sembra ora si sia definita appunto in scrittura pittorico-segnica, in un duplice modo: di liberazione dal limite iconico-simbolico, appunto in tale scrittura segnico-cromatica (particolarmente evidente nei temi di "Cavallinità"); e di liberazione di pulsioni canalizzate nel processo metamorfico del contesto segnico-cromatico in senso automatico (particolar­mente evidente nei temi di "labirinti").
il raggiunto margine di automatismo della scrittura pittorica segnica conquistato recentemente dall'immaginario di Ianni garantisce cioè un esito liberatorio, che è esattamente della libertà di un'esplorazione psichica, entro una dimensione immaginativa che coinvolga energie vitali ed echi cosmico-naturali in un contesto di percezioni molto diramate, ma che sostanzialmente involvono l'io individuale in un tutto vitalistico che lo assorbe.
Ed in questa particolare condizione di felice disagio psichico che i dipinti anche I più recenti di Ianni mi sembra si facciano vivida e convincente testimonianza.

Enrico Crispolti 1988






La mostra consente di fare il punto sul divenire della pittura di questo gio­vane artista. Dopo alcune esperienze di surrealismo iconico che già sancivano la scelta di un'arte tesa alla visualizzazione della vita della psiche, la pittura di Ianni è rimasta fedele ad un assunto simbolistico e ad una dimensione epifani-ca, ma dalla varia gamma di prove iniziali si è diffusa su due temi privilegiati: la «cavallinità» e il «labirinto». Nel primo caso la conferma dell'iconicità non na­sce da un banale assunto naturalistico, bensì da un'istanza metaforica, con l'os­sessiva presenza del cavallo a simboleggiare un vitalismo naturale tutto percor­rente e travolgente nel suo incessante procedere entro ogni forma e che assorbe lo stesso io creatore; il «labirinto» rappresenta invece lo sforzo di trasferire sul piano segnico-cromatico l'incessante divenire della propria vita interiore, a con­tatto con la quale la pittura di Ianni vuole sempre rimanere, salvo poi scoprirne l'estraneità alle leggi dell'ordine e della proporzione e risolvendola nell'immagi­ne di un groviglio. Ma già l'emergere a coscienza del labirinto, il suo rendersi osservabile, è un atto liberatorio, un preludio di conoscenza.
Gian Luca Gualandi 1988







Nasce a L’Aquila nel 1964, ha frequentato il liceo classico attualmente è iscritto all’ultimo anno-corso di pittura dell’ Accademia di Belle Arti di Firenze. Esor­disce con la sua prima mostra personale nel 1984 a Montesilvano; Roseto degli Abruzzi cui seguono nell'85 una personale a Silvi, nell'87 a Teramo, nell'88 a Pescava galleria II Trifoglio, nel novembre '88 esporrà a Milano al Centro Lavoro Arte. Partecipa a numerose manifestazioni: nell'83 Premio Avezzano, nell'84 a Chieti Premio Nazionale pittura e grafica (2° premio), nell'85 Pesca­ra Fumetto (1° premio), nell'86 Sulmona premiato alla XIII Mo­stra Nazionale Arte Contemp., XXXVIII Premio Michetti. Nel­l'87 è invitato a Forte di L'Aquila curatore Enrico Crispolti e al Premio Termoli a cura di Silvana Si­nisi. Dal 26/7 al 10/8 1988: "Due generazioni a confronto: Paolo Baratella-Stefano lanni" a cura di Enrico Crispolti, patrocinio Co­mune di Caramanico (PE) ed Ente Terme.



Amo il verde, il silenzio, lo spazio e la luce, ma non amo l'isolamento del vivere in campagna. Perciò la mia casa ideale è un apparta­mento sito all'ultimo piano, con giardino pensile, in un palazzotto d'epoca che ab­bia conservato l'intimità ed il fascino discreto "fin de sie­cle". Vi realizzerei casa e studio congegnati in modo da poter scindere nettamen­te i due settori per tutelare al massimo la mia privacy.



Quando e come hai deciso di fare il pittore?

Credo sia un'inclinazione innata che si è concretizzata via via che prendevo coscienza delle mie esigenze.



Sei stato contrastato in questa scelta dai tuoi famigliari?

Al contrario, penso di essere stato favorito dall’atmosfera stessa che respiravo in casa, mio padre si nutre letteralmente d’arte e mia ma­dre è una poetessa la cui sensibilità mi ha sempre af­fascinato.



Quando iniziasti a dipinge­re con intenti professionali?
Poco dopo l'inizio del­l' Accademia, presi in affitto una soffitta e lì iniziai la mia ricerca che continua tutt'ora.

Lavori costantemente o lo fai solo nei cosiddetti momen­ti di grazia?
   La ricerca pittorica richie­de costante applicazione, certo vi sono momenti particolarmente felici per cui creo con facilità e sperimento sensazioni gradevoli, ma an­che in questi casi occorre ap­plicare una rigorosa analisi per puntualizzare e verificare la validità dei contenuti.

Si può dire che il tuo sia un lavoro di ricerca...
Sì, infatti sul tema "Cavallinità e Labirinti" ci sto lavorando da sei anni.

Come è nata questa temati­ca?
Partendo dallo studio sul­la figura umana, sono ap­prodato ad identificare nel­l' essenza equina la simbolo­gia di libertà, dinamismo, generosità, in opposizione c'è il labirinto, elemento di costrizione, simbolo dell'in-sondabilità dello spirito da cui si esce attraverso la ra­gione.

Questo in sintesi il conte­nuto della ricerca di Stefano lanni: simbologie astratte, di­rei quasi metafisiche svilup­pate in situazione di circolarl­tà o sferoidalità. Una dialettica che nelle sue tele riesce a convincere e svilupparsi in un tutto armonico di forme in espansione. Nelle sue opere più recenti ha trasceso questi concetti attraverso una ricerca più sottile e penetrante acquistando un linguaggio segnino quasi surreale.

Tiziana Zanchi-Anselmi – La casa ideale dell’artista, “L’angolo dell’ispirazione” in CASA OGGI n° 168 - 1988





ALINARI E IANNI
Si erano trovati insieme, selezionati fra i grandi pro­tagonisti dell'arte contemporanea, in quel bellissimo incontro-mostra che appena due anni fa Silvana Sinisi aveva curato con tanta avvedutezza per il comune di Termoli, sotto La costellazione del segno: Luca Alinari, fiorentino, e Stefano Ianni, aquilano. Credo che fos­se la prima volta. Ma poiché certi accostamenti non sono mai casuali, la vicenda aveva grosse probabilità di ripetersi. E oggi si ripete, infatti.
Alinari e Ianni appaiono dunque, nello storico ca­stello dell'Aquila, in una mostra a due, vale a dire senza interferenze di altri linguaggi; anche se i loro, in effetti, hanno poco in comune oltre la fragile apparenza che talvolta può confondere le idee a chi ne affronta distrat­tamente la lettura. Alinari ha alle spalle un percorso Anche nei dipinti di Ianni è una ironia sottesa; ma la si avverte diversa nella specificità del ruolo da quella di Alinari perché diverse ne sono le origini : e, forse prove­nendo dall'esercizio del <cartoon>, si fa marcata e dida­scalica. Ad ogni modo è anch'essa fonte di ambiguità, riscontrabile nelle scelte formali più che nello strumen­to linguistico; e accende possibilità evolutive che in­combono sulle immagini di oggi quasi a renderne effi­mera la catalogazione. È pittura giovane. E come tale ha ampi diritti di condurre esplorazioni anche spieiate dentro e fuori i confini di un immaginario sempre più ricco di sensazioni: per costruire anche arbitrariamen­te sopra le esperienze plurisecolari che vigilano con metodica saggezza sulle sorti di una civiltà della quale ci sentiamo partecipi e sentimentalmente responsabili.
Non è un confronto, è un incontro. Ai due pittori che rispecchiano gli entusiasmi e i valori delle generazioni nuove, l'augurio che i loro sogni di gloria, sempre legittimi in chi opera con sincerità e impegno professionale, non tradiscano quel canovaccio su cui sono state intes­sute le premesse dei loro itinerari; che sono poi gli idea­li dell'arte. Immutabili, nonostante tutto.
Tommaso Paloscia 1989



Mi pare di poter dire che nell'opera più recente di Stefano Ianni — dove sembra che l'artista abruzzese abbia abbandonato ogni opzione animalistica (la «cavallinità» di cui parla Crispolti) per approdare a stilemi tra surreali ed astrat-tizzanti — convergano alcuni elementi stilistici che sono sempre appartenuti ad esperienze d'avanguardia: il carattere non formale e l'accentuazione del descrittivo. Ma ciò che sostanzialmente la caratterizza e costituisce la sua ragione più vitale è il porsi come momento di conoscenza di un lato diverso e nascosto della realtà: dell'«altro lato» delle cose.
Il rapporto con il mondo e con la vita diventa così molto forte e la ricerca degli eventi misteriosi — o speciosi — della realtà si traduce generalmente in una eccedenza di espressività, in cui bellezza formale ed intensità psicologica, splendore cromatico ed allusività, chiarezza costruttiva ed ambiguità della dizione fantastica vanno di pari passo, sì che il mondo di questa pittura viene ad essere costituito non soltanto da quello «banale» delle apparenze, quello logico di una visione razionale, ma dal mondo sotterraneo ed analogico delle conoscenze seconde, dei fatti e delle cose che stanno al di là del reale (Si può cogliere persino nella sua atmosfera quasi un momento di sospensione, in cui ogni cosa sembra ferma per un evento che sta per accadere e che da un segnale della sua situazione; ed ecco che si accorge che l'evento atteso è, nella sostanza, proprio questa sospensione, che rimane così aperta su ogni possibilità, sulla dimensione indecifrabile di ciò che non avviene o che non finisce mai di avvenire). E’ l'effetto del mondo irrazionale e fantastico delle apparizioni, delle epifanie, che nascono dall'interno, dal profondo, a seguito dell'energia magica che si sprigiona dagli accostamenti apparentemente più disarmonici ed incongrui: epifanie che colpiscono all'improvviso per la forza della loro inusitata apparenza, della loro novità «scandalosa», rimandando la conoscenza più vera della loro natura ad uno scandaglio postumo e minuzioso, ad un'attenzione più prolungata e libera, capace cioè di ricucire, nello stallo della riflessione, la catena infinita delle immagini e della figurazione.

Pietro Civitareale 1988/1989





Stefano Ianni nel recinto del presente
Sono ormai noti i due grandi cicli pittorici di questo artista aquilano dedicati al cavallo e al labirinto che rappresentano la sua adesione alla storia non soltan­to delle arti visive del nostro secolo, catalogabile come il secolo del dinamismo (penso al futurismo nel cui ambito ha trovato spesso interesse l'esuberanza vitalistica del cavallo: una citazione per tutte «Dinamismo di cavalli» di Alessandro Bruschetti che fu aeropittore e soprattutto dello smarrimento emblematicamente espresso dal labirinto. Egli è pertanto operarius nel recinto del presente, di que­sto campo ove il dubbio e la ricerca incessante che oscilla tra la figurazione e aniconicità sono il verbo qualificante la sua intensità emotiva di artista. Va da sé che su tali presupposti Ianni si lascia coinvolgere da un sofferto discorso ma­terico e segnico: materia come caos indistinto nel cui ambito si obiettivizzano, attraverso il segno, la sua presenza demiurgica e i suoi stati d'animo nei quali si riscontra la componente magica, l'instabilità del sogno, la sovversione funam-bolica dell'estetica classica.
Per tornare al labirinto, devo dire che una sua ricorrente tipizzazione è quella del modulo, che se da un lato razionalizza la superficie pittorica (non sono estra­nee a Ianni certe tesi del Concretismo tra le due guerre), dall'altro accentua dia­letticamente lo smarrimento esistenziale e quindi l'urlo alienante dinanzi all'u-guale, al seriale, al pianificato accumulo della trappola suadentemente struttu­rata in modo logico, ma che irretisce il ri-generarsi dello spirito umanistico con le sue capacità inventive e fantastiche.
Queste tesi centrali a tutta la sua imagerie non sono dissimulate dalla peren-torietà del colore acrilico e dall'uso dell'aerografo che riesce a potenziare le to­nalità vitalizzando violentemente le composizioni che, catapultate nella dissiden­za dall'iconico e cioè nella metamorfosi, richiedevano un altissimo spessore di tensione, un'inquieta pienezza energetica che potesse giustificare l'andirivieni tra Uétre et le néant.
Ecco spiegata l'enfasi del colore, il compiaciuto ricorso alle traiettorie cal­de, quell'andare su di giri della sua gestualità ovoidale sempre propensa all'or­ganico e poi la non-presenza del mimetico (il tema del cavallo lo attinge dagli spazi surreali della memoria) e del naturalistico, sicché ogni riferimento al reale smarrisce nell'instabilità formale. Il rischio del nihilismo, progettuale per lo me­no, della civiltà contemporanea registrato dall'orizzonte anarchico-onirico che non diserta, oltre quella dell'Informale, la lezione del surrealismo, viene esor­cizzato da Ianni con opere dal ripiegamento francescano sull'arte povera e la pop-art, ove l'anelito al lirismo diviene regola prioritaria e indiscussa coscienza della trascendenza. Ne derivano composizioni più pacate, terse e nella dialettica tra l'azione e la stasi, prevale quest'ultima mentre certi riscontri dinamici vanno letti come divagazione o arabesco che rafforza la potenza espressiva dell'intui­zione lirica. Anche il colore abbandona il ritmo inquietante del divenire e da una sorta di restrizione artificiale o falsetto torna alla duttile gioiosità umanisti­ca, pur tuttavia con delle sedimentazioni dovute alle ricerche precedenti.

Leo Strozzieri 1990




Già ricco di curriculum nonostante la giovane età (è nato all'Aquila nel '64) Stefano Ianni appro­da adesso a Pescara con una personale allestita nella Casa D'Annunzio. La mostra sembra segnare un punto di svolta importante, naturalmente tutt'altro che univoco stante la fase necessaria­mente aperta di ricerca che deve contrassegnare un'arte giovane: l'abbandono di temi ricorrenti finora, e che probabilmente rischiavano di costrin­gere il pittore dentro parametri divenuti troppo obbliganti e dunque angusti, apre le vie a progetta­zioni assai più libere, nelle quali può dirsi che l'obiettivo fondante sia non più la rappresentazione ma il suggerimento di essa, ovvero indicazione per cenni di itinerari che la nuova pittura possa per­correre.
A far testo è il colore, invece che il segno, con la connessa liberazione gestuale, tuttavia tenuta a freno da alcuni fattori rivelatori. Lo studio del contenitore, per esempio, elemento in apparenza di subordine ma qui chiamato in causa per una implicazione paritaria con il resto della tela diven­ta allora insieme la linea di demarcazione ma anche il canale di transito per la rottura degli spazi canonici.
In molte delle opere esposte ricorre un motivo chiaramente allusivo: i tre colori che esplodono al centro della tela come per porre premesse dialetti­che con il resto del paesaggio, al quale dunque è il colore che intende offrirsi come tema e ragione di vita. In altri lavori si accentua il motivo della libe­ra circolazione di elementi posti a punteggiare per­corsi immaginari.
  Stefano Ianni si mostra intento a guardare e a cercare, in chiave sempre marcatamente soggetti­va, cosicché la sua scrittura pittorica, sulla scorta degli acquisiti criteri di base, sembra avviata a godere di ritmi sempre nuovi e sempre densi di vitalità.

Giuseppe Rosato  1990




Viaggio nei labirinti di Stefano Ianni

La pittura di Ianni si colloca idealmente al di qua della distinzione tra il figurativo e l'astratto; c'è nelle sue tele un' esuberanza di colore, una specie di virtuosismo cromatico, che pero non si appaga di sé, ma tende a dar più risalto ad espres­sioni che nascono da un chiaro intento figurativo: a talune sagome di valore simbolico, rese inquie­tanti, per cosi dire, dal colore che attorno ad esse si stringe. Il tema che unisce tra loro i quadri, "Segnali nel labirinto", congiunge in un solo discorso le diverse manifestazioni pittoriche; e la resa in immagini di questo discorso è veramente assai suggestiva e ricca di significato. Il motivo del labirinto esprime con grande immediatezza la condizione dell'uomo nel nostro tempo: una con­dizione di ricerca perenne e senza risultati di un'indagine che si ripiega su se stessa e che non giunge mai ad alcuna riposante certezza. Nei qua­dri di Ianni i "moduli nel labirinto" offrono figure vagamente geometriche che, ossessivamente ripe­tute, fanno pensare ad una situazione di travaglio spirituale e di affanno: situazione che l'enfasi del colore rende più sicura e più forte. Altre volte lo stesso motivo trova la sua realizzazione nel con­trasto tra l'irrequieta mobilità dello sfondo e irreale fissità delle immagini in primo piano, l'urto dialettico tra il dinamismo e la stasi.
Francesco Desiderio  1990




Sospensioni dell 'immaginario: Stefano Ianni
   II giovane operatore aquilano produce attendi­bili risultati, che situano l'immaginario a contesto della superficie della tela. Gli ultimi lavori dell'ar­tista, promossi da un efficace linguaggio d'inter­mittenze segniche, risultano testimonianze di at­tente riflessioni e precipitato esemplare di un sano esercizio pittorico. Sostanzialmente sono rilanciati nei dipinti lieviti informali e tracce figurali, di por­tata ludica. Stefano Ianni continua, sfidando una catena di riferimenti, ad attualizzare accostamenti significativi, strutturando la composizione, con ar­tifici simbolici, ed, in fondo, per determinare una sofisticata leggibilità dell'insieme.
Nel controllare questa pittura emergono tra­smissioni fantastiche, che dialetticamente incidono la scena. E su questa un larvato senso del reale, pur rimanendo vivo, anche se non caricato di par­ticolare intensità, né trattato con piena incisività,' vigila, non dimenticando di tutelare l'impatto con nuovi contesti e di scandagliare la carica frattale. Simboli e segnali caratterizzano motivi di chiave psicologica e dispongono il campo ad essere misu­ra di nuovi spartiti visivi. I simboli e i segnali s'aprono a ventaglio per inglobare dubbi ed inter­rogativi, nonché per superare un cosmetico limite iconico e costituire, cosi, un nuovo margine d'in­stabilità figurale. Questi strumenti visivi, sottoli­neati da marcati lampi cromatici, indicano d'esse­re veicoli di una catalogazione a metà tra metafora ed allegoria. Sono precisate, senza ambiguità, pre­messe di nuovi itinerari iconografici, in cui la fan­tasia sembra prendere più tono. Stefano Ianni, nel conquistare lo spazio della tela, è attento ai peri­metri e all'equilibrio formale, e, per non rendere incongruo il passaggio del colore, ne misura la quantità, l'effetto e la capacità calamitante. In ef­fetti rende il colore, nella sua qualità migliore, ele­vandolo a pungolo ottico.
- Non c'è incatenamento della colorazione, bensì un sostenuto e profondo accordo per l'ac­centazione.
L'artista procedendo, con estrema attenzione, costituisce un quadro segnaletico, in cui il colore è conquista della superficie e le cifre figurali diven­tano promozioni estetiche. Il tutto risalta da una maglia allegorica, di taglio fantasmatico. Fantasie apparenti e fantasmi inseguiti si combinano nell'apprezzabile gusto del cumulo vorticoso delle pennellate, nella segnalazione acconcia e sintetica del dato figurale coniugato all'abbozzo utopico di aggettanti richiami modulari. Pittura mediata, e non di gesto, in cui vettori e vertici, esplosioni ed implosioni, trasalimenti e consapevolezze condu­cono a chiare e forti appendici d'espressione. In definitiva, ogni dipinto è un tassello di un più va­sto excursus teso a propendere verso un'astrazione liberatoria, che a sottolineare soluzioni sotterra­nee. L'operatività di Ianni non sale a manifestare sostanziali affronti visivi, ma esalta ramificazioni ironiche e temperati racconti, che non dimensiona­no realtà soffocate, ma registrano supplementi di un fertile immaginario.

Maurizio Vitiello - 1991





I materiali del sogno


I sogni sono sempre una delle materie con le quali l’uomo si trova più disarmato: il contatto è eccitante, a volte imbarazza, incuriosisce sempre. Certo è che possiamo sognare solo a partire da ciò che conosciamo, da ciò che abbiamo visto. Ecco perché  non mi attira la fantascienza, non mi attirano i marziani con otto mani e tre occhi, perché sono semplici alterazioni di quanto più ridicolo si crede  di avere a disposizione. Il sogno è diretta conseguenza della nostra vita e allo stesso tempo ne è stimolo continuo. Strano solo in apparenza: da un lato possibilità di sfuggire alla ripetizione monotona dei gesti e delle parole, dall’altra l’invenzione costante, il rinnovamento, l’imprevedibilità. Storia antica come il mondo si dirà – e certo esplosiva se potessimo sapere quello che sognano gli animali e, se fossimo animisti, gli alberi e le pietre, tuttora capace di muovere gli animi fino all’ultimo slancio di cartesiano spirito nelle immagini di Wim Wenders, la possibilità di visualizzare l’intangibile etereo di immagini che attraversano gli occhi della mente.
Aggressivo da un lato, rifugio accomodante subito dietro la barricata, il sogno. Si veda, però, da un’altra angolatura, riferita alle esperienze che fanno la diversità di ognuno di noi. In tal senso il sogno, e la facoltà di immaginare, si legano direttamente, concretamente alla nostra personale storia, fatta di immagini e suoni, fino ad incontrarsi con la filosofia per il tramite della memoria. Ricordo, dunque sono. La forza della memoria, la forza della storia. Per contrario, tutte le dittature procedono per via di cancellare personalità costruite pazientemente, fra sofferenza  e passioni, giorno dopo giorno. Stefano ianni prende con forza il bandolo di questa matassa intricata, ne sviluppa i capillari portandoli ad emergere nelle loro complessità. Dai temi della “Cavallinità”, dei “Labirinti”, fino a questi ultimi legati ai “Materiali per i sogni” la sua ricerca ha fatto propri i versanti dialettici del colore e della materia, trovando soluzioni che ampliano la risonanza ed il significato di ciò che si intende per pittura. In più occasioni ho parlato di pittura riconducendola ai suoi elementi basilari di superficie, forma, luce, materia, nel senso insomma di preservarne intatta la possibilità di irraggiamento e intima costituzione, svincolandola dalle categorie dei generi che ne privilegiano solo la semplice apparenza. Ebbene, allora è all’interno di tale ampia libertà intellettuale che Ianni si muove, ritrovando ogni volta intatte, pur mutandole di segno e di accentazione, le matrici linguistiche del proprio percorso. Deve essere sogno, memoria, possibilità di trovarsi all’interno del caos? Si, ma ogni volta sarà diverso, più profondo, accorto, sottile. E certo, mantenendo il filo del labirinto, ogni volta uguale alla prima.Fermo restando che la ricerca, la sua tensione, rimane costante, capace di rinnovarsi ad ogni opera: una molla che si ricarica dal proprio interno, assorbendo energia da fuori, laddove, per l’appunto, a proposito di Ianni, Enrico Crispolti parlava di ”disagio psichico”, intendendo il pungolo, lo stimolo che lo spinge ad osservarsi – quale umanità – e a proiettarsi nel mondo, facendo riferimento poetico e contatto formativo con i surrealisti nella loro più ampia, enigmatica presenza. Passando da una pittura segnica e gestuale ai più recenti “materiali del sogno”, Ianni ha individuato l’anima bruciante della ricerca visiva, la sua naturalità come operazione consapevole, la sua non naturalità se intesa come semplice copia del reale.  In altri termini, l’opera tanto più si discosta dalla superficie del reale quanto più ne imita le fattezze o ne usa i materiali. La pietra non è più pietra all’interno del suo racconto visivo: è volume, è sonorità; un appiglio, un abbordaggio alla concretezza. Eppure è sempre pietra. Dalla superficie della tela allo spessore fisico, palpabile, la ricerca di Ianni si costruisce spostandosi dalle due e le tre dimensioni, aprendosi e chiudendosi in sé, stabilendo un movimento alterno nello spazio, nelle sonorità che l’opera stessa viene a determinare. E’ in tal senso che non è più possibile determinare quale sia contenuto e quale il contenitore, se la cornice stessa si sottomette ad accogliere in sé i viluppi del reale. Il rapporto naturale-innaturale trova ipotesi di soluzione in quanto precisa scelta di campo operata dall’autore, che individua, modellandola e circoscrivendola, la profondità e i tempi dell’immersione. “Non prometto salvezza né quiete”, afferma Ianni; il legno si spoglia a contatto con l’atmosfera, ne trasmette le onde magnetiche al colore come se fosse spazio, luogo fisico e del pensiero, della natura e della memoria, plasmando sulle sue onde accordandosi alle mille luci che Ianni ha visto, toccato, assaggiato nei viaggi. Luci che nel suo percorso espressivo illuminano realtà imprevedibili, autonome ed il contatto le una con le altre, una e cento insieme, come un collage compiuto, i “materiali dei sogni”, fino ad avere senso complessivo una volta raccolte e composte secondo il senso che è giusto che abbiano, avvolgenti secondo un moto circolare mai conchiuso, ritrovando in  esso la sospensione ineffabile, il silenzio rarefatto delle montagne, delle quali si snoda il profilo sia dipinto che sagomato: ma è il barlume di un attimo, avvolto dall’onda della memoria.


Giandomenico Semeraro – Oggi e Domani N°1, 1994

LE INFINITE ESISTENZE DEL SOGNO NELLA PITTURA DI STEFANO IANNI


Dopo i cicli pittorici di “Cavallinità”, di “Moduli” e di “Segnali nel labirinto”, Stefano Ianni è attualmente impegnato nella realizzazione de “I materiali del sogno”, ciclo pittorico al quale l’artista lavora già da qualche anno ed in cui è ben visibile il coerente processo evolutivo della sua ricerca artistica caratterizzata, fin dal suo primo definirsi, da unintento segnico coincidente con un forte movente cromatico-gestuale. Tali componenti hanno subito, nel tempo, variazioni, recuperi, sviluppi ulteriori quali logiche conseguenze di un lavoro intenso che colloca il nostro giovane pittore tra i più acclamati e ricercati protagonisti della nuova generazione di artisti.


Ianni è, quindi, stilisticamente impegnato sul fronte di una manifestazione segnica fluttuante, su di un inquieto vagare di aggregazioni formali, ora più integre e compatte, là dove l’artista inserisce l’elemento naturale o il dato minimo dell’icona, ora più disomogenee e indistinte, come nel caso degli interventi di colore dall’andamento ondulato o le cornici lignee anch’esse realizzate secondo uno schema fluido e biomorfo e da una scansione ritmica che sembra trarre origine da lontane regioni del sogno o dai misteriosi meandri dell’inconscio. Ed è proprio in quest’ultimo periodo creativo che Ianni esplicita apertamente la poetica dell’immaginario con un intento talmente spontaneo da non tener conto dei limiti bidimensionali del quadro: l’artista sembra libero di muoversi, anche se virtualmente, all’interno di uno spazio agravitazionale, leggero e amniotico, suscettibile di divenire onnicomprensivo oltrepassando le barriere materiali. E’ chiaro che nel discorso pittorico di Ianni esistono implicazioni latenti che sfiorano la poetica del concetto per divenire potenzialmente “pittura d’ambiente” soprattutto in riferimento all’elemento cornice, così vaga e fluttuante, evidente tramite di due diversi livelli di esistenza ed efficace mezzo che, invece di recingere ed arginare, amplia, estende, sviluppa l’immagine dipinta sulla tela, oltre la delimitazione lignea, nell’ambiente circostante.

Nei lavori più recenti, Ianni aggiunge a tale processualità noetica e concettiva il recupero di quel suo fare più gestuale, caratteristico dei propri esordi pittorici e sintomo di una profonda necessità di iterazione, comune al più autentico manifestarsi dello stato creativo.

Ecco, allora, che Ianni produce una sorta di scrittura-immagine realizzata con l’ausilio dell’analisi microscopica ovviamente di natura mentale che ne evidenzia il tratto, l’ordito, la velocità d’intervento, l’attrito. Quasi una scrittura automatica, i morfemi dell’artista aquilano connotano stati emozionali, situazioni ipnotiche, momenti onirici.

Ma le infinite esistenze del sogno della pittura di Ianni non si manifestano attraverso l’alterazione della realtà, piuttosto mediante l’affiorare in superficie del livello iletico dell’immagine che, analizzata a tale profondo livello di esistenza materiale, fa emergere il dato archetipo di cui è informata e che reiterante, dà consistenza visibile alla volontà creativa dell’artista.


Più che “materiali di sogno” le ultime opere di Ianni potrebbero essere pensate come ricerca continua dello stato di coscienza del sogno o di una condizione di esistenza primigenia, precedente alla formazione dell’universo in cui il pittore sonda gli elementi fondanti il micro e il macro-cosmo, ne saggia le componenti che poi visualizza nei segni fluttuanti, ancora principio di vita extragalattica o di vita dell’inconscio.


Dati ancestrali o dati fantastici che siano, ciò che è importante comprendere è che Ianni elabori tali elementi del proprio codice espressivo attraverso la logica dell’intuizione: quella particolare capacità di afferrare i nessi essenziali delle cose comune a gran parte degli artisti. La dimensione dell’arte, in fondo così prossima agli stati metapsichici ed alla perenne demiurgia dell’universo, si presta, come Ianni ci dà testimonianza attraverso le sue opere, a rendere visibili le suggestioni dell’anima ed a svelare l’intima essenza dei sogni, tendendo la mano all’infinito.


Maria Augusta Baitello 1996






Ho conosciuto Stefano Ianni alle sue prime manifestazioni artistiche; l'ho ritrovato, nel 1997, al mio ritorno in Abruzzo, artista affermato, già acquisito nel contesto del Museo d'Arte Contemporanea della Soprintendenza - come pure da altri Musei italiani -, sono stato testimone del successo della sua Personale romana - gennaio 1998 - all'Associazione Abruzzese di Piazza Cavour, presenti, tra il folto pubblico, critici qualificati, tra i quali Lorenza Trucchi, Presidente dell'Ente Quadriennale di Roma, Carlo Fabrizio Carli, Mario Padovan, Domenico Guzzi.

Da ciò la decisione di patrocinare, come Soprintendenza, una sua Personale al Forte Spagnolo di L'Aquila, che coincide con due importantissime presenze: la rassegna "da Valori Plastici a Corrente" e la Personale di Enrico Benaglia.

Dell'iter artistico di Stefano Ianni vanno ricordate, in sintesi, le fasi dei vari cicli con i quali si è cimentato, da "Cavallinità e labirinti" a "Moduli nel labirinto", da "Segnali nel labirinto" a "Materiali del sogno", fasi documentate in numerose personali, tra le quali due al Forte Spagnolo di L'Aquila: quella del 1989: "Mammuth, due pittori una presenza: Luca Alinari e Stefano Ianni" e quella del 1994, con l'inizio del ciclo dei "Materiali del sogno".

L'analisi critica della produzione di Stefano Ianni è stata effettuata, da par suo, da Caterina Lelj, che conclude: "Siamo agli annunci di tutta una civiltà dell'arte, che ha tolto di mezzo la logica naturale, per regalarci il sogno. E questa è stata ed è la fatica di lanni e dei materiali. Dice l'artista: essi sono colore collegati a problemi di spazio, di forma, di luce. Possiamo dire ora, che siamo ad un momento alto della pittura di questo giovane artista".

Architetto Giovanni Bulian Soprintendente ai B.A.A.A.S. per l'Abruzzo 1998


Una irreale realtà ignota
Stefano Ianni è sulla breccia dal 1984. E d'allora stupisce la sua capacità e quel crescere appariscente dell'aulica gestualità. Stupisce quel vagabondaggio. L'invenzione fantastica e la natura poetica sono ricche di sostanza spirituale. Cavallinità. Moduli nel labirinto. Segnali nel labirinto. Materiali del sogno ci illu­strano ij viaggio e l'attuale punto d'arrivo.
Cominciò, dunque, giovanissimo Stefano lanni, con un gesto capace, gridante l'urgenza di programmarsi vivo. Era un'affermazione generosa, una spettacolare giostra delle forze, che l'uomo non doma, nella indomabile volontà di vivere. Entrarono così in campo le composizioni della Cavallinità e, l'occhio fino di Crispolti annotò, meditò, e diede il via al discorso critico.
lanni, artista colto e studioso, ad un certo momento depose le armi sfrenate, e nel territorio del Labirinto cominciò la riflessione. Furono prima i Moduli del 1988. La fantasia colore è investita da una forza architettonica, che costruisce forme e spessori di geometria inventata, teoremi non risolti, forme chiuse senza gesto, cristalli ripetuti in un serrato monumentale schierarsi. Ma i Moduli possono anche, via via, perdere la concretezza, diventano musica di animazione e del profondo, emergono i colori gridanti, note d'orchestra rosse, gialle e una danza turchese.
Del viaggio nel Labirinto. Francesco Desiderio scriveva nel 1990 che questo motivo: "... esprime con grande immediatezza la condizione dell'uomo nel nostro tempo: una condizione di ricerca perenne e senza risultati". Nel Labirinto di Ianni, dove la Cavallinità ha trovato la sua battuta di arresto, si sono scoperti i Moduli, che sono corpi cristallini, o anche intrecci dalla gestualità impenetrabile. Si viaggia alla cieca nel ritmo ripetitivo e ondulante del colore.
Nel Labirinto, poi, in una spazialità dell'ombra, stanno radicati i Segnali. Non è più il grande temporale del colore, nella visione ordinata di corpi architet­tati, sono essi che sbarrano la strada, ma si tratta di pareti striate di luce, pareti di cristallo, e dinanzi a noi i Segnali. Volano, metamorfosi di farfalle, e arabeschi come fiori prepotenti. Sono ardue pagine trasparenti. Il sensibile incunabulo nasconde il suo mistero e lascia a noi scoprire la musica.
Tommaso Paloscia nel 1989 accennò, in una sua nota, all'ironia di Stefano Ianni. E l'ironia è fortemente appariscente, quando ai piedi di quelle pareti, che paiono fazzoletti striati di luce, compaiono gli abitatori, sono innocui, stanchi cavalli, innocui grassi elefanti. E questo dunque il luogo del demoniaco mistero? Ma, perduto, qui, il sapore della leggenda antica, qui comincia l'alba della poesia, e comincia con la palpitazione del colore. Nel 1990 Giuseppe Rosato osservava: "... è il colore che intende offrirsi come tema e ragione."
Nel territorio dei Materiali del sogno palpita la meraviglia. Una cornice di legno ci sottolinea un frammento di quell'universo senza confini. Ed è la cornice un lavo­ro di legno, un oggetto d'arte che lanni ha inventato; esso inquadra la parte alta del dipinto e si interrompe a metà dei fianchi. Sul piano di posa poi un sasso è addossa­to al legno, un grande sasso rotondo. Esso è simbolo del mondo naturale e sta lì a confronto con l'opera dipinta, che è la forma simbolo dell'immaginario. Natura e pensiero, dunque a confronto, come corpo e anima. Dalla Cavallinità alla pura spi­ritualità. Così Ianni ha costruito l'universo. Universo del corpo e dell'anima. E la pittura è al suo vertice.
Le estensioni degli ultimi dipinti vivono l'immensità del creato. Sono essi cielo, terra, e profondità marine. L'uomo non è ancora nato. La terra è vista prima dell'alba, ignora il sole, lievi cordonature brune attraversano lo spazio incolore. Emerge una bellezza melanconica, disabitata, una irreale realtà ignota. Una grande tristezza è il presagio del male oscuro che regalerà il tempo.
Il dipinto del Cielo è un immenso sconfinato azzurro, il sole è la torcia, il riflet­tore. Il ciclo vive così la sua meraviglia. E un universo purissimo, non contaminato da certezze. L'invisibile gli regala il sublime e la sua astrazione è quanto l'infinito. Così anche i percorsi sottomarini dell'Oceano sono una grande bellissima poesia. Cielo, terra e mare, nell'autonomia della loro magnificenza, fanno parte dei Materiali del sogno. Siamo agli annunci di tutta una civiltà dell'arte, che ha tolto di mezzo la logica naturale, per regalarci il sogno. E questa è stata ed è la fatica di Ianni, e dei materiali. Dice l'artista: essi sono colore, collegati a problemi di spazio, di forma, di luce. Possiamo dire, ora, che siamo ad un momento alto della pittura di questo giovane artista.

Caterina Lelj 1998








PERIMETRA

Confine vivo per delimitare un vuoto pulsante; territorio di nuove sedimentazioni; geografia mutoide dove si raccoglie il bordo centrale di uno sguardo decentrato sul mondo; perimetro che sintetizza interno ed esterno in una dogana fisica della materia...

STEFANO IANNI inizia e agisce dove l’opera solitamente si completa o decora. Parte quindi dal perimetro, dalla zona volumetrica che chiamiamo, per comodità diffusa, CORNICE. Da alcuni anni, proseguendo un’azione figurativa che prima si esplicava sulla tela, agisce sopra/dentro la struttura quadrata che ingloba la normale area interna. Il personale rigore e la delicatezza del progetto hanno imposto, però, una modalità inflessibile: cornice di forma sempre quadrata, dimensioni standard tipo il 50x50, utilizzo di pochi materiali che tornano in modo ossessivo, riferimento costante con alcune materie del paesaggio. Dentro la nettezza di questo regolamento autoimposto, la libertà naviga come un flusso ondivago di colori e forme. Il riciclo dell’artista si congela nella gommapiuma o nelle resine che compongono le cornici. Lì dentro e sulla pelle stessa della materia cresce la manipolazione formale del progetto PERIMETRA. Un’operazione che arriva dopo anni di pittura su supporti tradizionali, interessata alla superficie ma anche all’invasione oltre i bordi, oltre le due dimensioni. Tanto ieri quanto oggi, comunque, permane l’ambiguità tra gli aspetti astratti del reale e le figurazioni sospese dell’invenzione: a conferma che si può leggere un pezzo di mondo con ONESTA’ ICONOGRAFICA, APERTURA STILISTICA e AMBIGUITA’ SEMANTICA.

La cornice è un dilemma fecondo che stimola plausibili soluzioni. Giulio Paolini, ad esempio, ne ha analizzato la concettualità autoreferenziale. Il Futurismo, invece, ne evocava il valore attraverso il debordamento della pittura sulla cornice stessa. Fabio Mauri dipingeva un bordo interno all’opera, circuitando la cornice nel codice filmico della pellicola e dello schermo. Discorso simile, sempre nei primi anni Sessanta, per i monocromi di Mario Schifano tra televisione e cinema. Dagli anni Settanta, poi, la pittura aniconica stabilisce relazioni tra il muro bianco e l’opera-cornice. Come nel caso di Pino Pinelli con le sue strutture colorate che racchiudono il muro entro le geometrie seriali del suo stile. Nei giorni recenti ricordiamo, invece, le gomme di Paolo Canevari, ovvero, semplici listini di camere d’aria per incorniciare grandi porzioni di candide pareti. La cornice, insomma, apre svariati canali sulle ragioni del quadro e dei materiali compositivi. Stimola riflessioni diversificate, talvolta troppo criptiche, altre volte sbilanciate sulla materia o sul colore, comunque importanti per aggiungere informazioni visive e morali sul quadro contemporaneo.

Guardando l’attuale progetto di Stefano Ianni parlerei di QUADRO PERIMETRALE e non più di semplice cornice. Non ci sono limiti congeniti alle parole ma vincoli che derivano dalla consuetudine, dall’uso sedimentato, da retoriche intoccabili. Per tale ragione il termine cornice indica appena una piccola parte del percorso di Ianni. Un inizio da cui prosegue il viaggio stilistico nella materia, nel colore, nella geometria, nella serialità di pezzi sempre unici. La cornice si tramuta così in superficie definita dell’opera. Esalta la presenza laterale, il concetto di bordo, le dialettiche tra pieno e vuoto. Un perimetro che tesse la trama di uno spazio rivitalizzato, posto ormai al centro dello sguardo trasversale.  

La cornice racchiude un mondo pittorico, tiene compressa l’energia dell’opera, evitando l’ideale (e non reale visto che ogni quadro può vivere senza cornice) dispersione iconografica di certi lavori su carta o tela. L’arte contemporanea, però, ha insegnato che molti quadri preferiscono la pulizia del solo telaio. Talvolta, poi, scopriamo che proprio l’attualità propone cornici specifiche per esigenze diversificate. La fotografia su enormi cibachrome, ad esempio, ha rivoluzionato la tipologia delle cornici imponenti. La stessa arte digitale sta contribuendo a nuove riflessioni sui supporti non soltanto decorativi. Talvolta assistiamo anche al contrasto tra la sintesi dell’opera e il citazionismo barocco della bordatura. Come nel caso di Luigi Ontani, maestro di narcisismi (erotico)fiabeschi in cui la cornice esagera la presenza, impone la diversità, sfrutta i riflessi della foglia d’oro. Per Michelangelo Pistoletto, ad esempio, uno specchio diviso in più parti sfruttava il valore architettonico di un grande perimetro. L’arte più riflessiva ha spesso valorizzato le “zone morte”, i bordi e il retro del quadro, i telai e l’intero scheletro dell’opera. Una lezione complessa che ha ispirato, direttamente o indirettamente, il nuovo progetto di Ianni.  “Perimetra” era la miglior sintesi per chiudere il percorso in una parola definitiva. Un solo termine che suona come un cerchio leonardesco dai moduli serrati ma dagli orizzonti infiniti.

La perimetrazione accerchia una storia interna, blocca la superficie in un confine che protegge e conserva. Ma la perimetrazione indica anche la presenza di un terreno esterno, di influssi lontani che influenzano la struttura stessa del perimetro. Il perimetro è un diaframma doganale che lega esterno ed interno. Crea continue comunicazioni, dialettiche insospettabili e avvincenti, vicinanze tra entità straniere. Il perimetro rappresenta la superficie del collegamento.

Dopo alcuni anni in cui la riflessione si concentrava sulla superficie e i suoi sconfinamenti, Ianni ha rivoltato la ricerca per vedere come l’esterno si avvicina alla superficie. I valori morali sono rimasti gli stessi, così come la soluzione formale collega le precedenti tele ai recenti quadri perimetrali. Per l’artista abruzzese i riferimenti costanti vanno al mondo esterno, alla vita quotidiana, agli scarti della metropoli, ai pezzi di natura. Adesso, però, quei brandelli del vissuto conservano la loro intatta presenza. Non c’è la pittura a sublimare una visione del mondo. Ritroviamo l’ipnosi della materia che si “solidifica” dentro le cornici trasparenti. Una sorta di riuscito congelamento che blocca sabbie di svariata provenienza, soldatini, biglie, perline e altro. Talvolta si aggiunge la materia pittorica per “vestire” certi spazi del vuoto. Oppure il vuoto stesso diventa un territorio più vivo delle zone d’accumulo.

Ogni opera stabilisce relazioni onnivore tra verità e finzione, tra sintesi ed eccesso, tra collettività e individuo, tra gioco e metafora. Ianni indaga le zone anonime del quotidiano, gli spazi interstiziali del paesaggio, gli scarti e gli oggetti che emanano un’energia anomala. In questo check antropologico ha senso l’ATTEGGIAMENTO TRASVERSALE, l’unico che certifica un plausibile dialogo tra parti contrastanti. Verità e finzione, ad esempio, sussistono nel momento in cui l’opera alimenta la molteplicità semantica di ogni presenza. Il soldato di plastica deve così rimanere un gioco colorato per sublimare il reale nel modellino; al contempo, deve determinare un atteggiamento morale, evocando fantasmi di violenza che l’opera congela in modo vigile e provocatorio. Contrasti e trasversalità sono il motore e la benzina del progetto di Ianni, la risposta formale al contenuto e viceversa.

La curiosità onnivora conduce l’artista nel paesaggio urbano, lungo le spiagge dei litorali italiani, dentro i luoghi della vita e nei punti incontaminati della natura. Il suo saccheggio creativo mi porta, non a caso, ai ricicli che Claudio Marini mescola dentro una pittura selvaggia, incendiaria, satura di rabbia e amore. Anche Ianni si muove in modo bulimico, indaga tra relitti e scarti civili, nobilitando la spenta vitalità della plastica, del vetro o di semplici sassolini marittimi. L’intero percorso nasce così da un’indagine continua sul territorio. Ianni cerca la potenzialità pittorica degli elementi esistenti, la valenza cromatica delle cose comuni, l’energia figurativa di oggetti improbabili. Le forme scelte, non a caso, sviluppano percorsi cromatici, riflessi e trasparenze, ampie scale tonali. Ogni oggetto diventa materia pittorica che si dispone in modo compatto, come se gli accumuli fossero zone di puro acrilico in tubetto. La viscosità sintetica dei quadri ha un’impalpabile valenza mutante, raccontando la propria intensità nelle soluzioni sempre diverse dello stile.

Superato il limite verbale della cornice a favore del quadro perimetrale, andiamo nella zona interna di questi quadrati alchemici. In realtà l’opera sviluppa la sua piena natura in rapporto alle soluzioni per la superficie contenente. Qui dentro, ad esempio, possiamo non trovare nulla: ed ecco che il muro bianco o l’ambiente fisico si introducono nell’opera, la influenzano, aggiungono valori installativi. La logica non è certo innovativa ma regala spunti di nobile riflessione. La differenza costruttiva, infatti, la fanno i termini costitutivi della cornice. Gli elementi bloccati all’interno o le volumetrie della gommapiuma dipinta creano complesse relazioni con lo spazio reale. Un gioco di continua simulazione (anche nel far passare un materiale per un altro) confonde le certezze visive, apre al dubbio, amplifica la ricerca di una risposta. Ogni volta percepiamo la vitalità di cose che erano nel mondo e vi tornano ma dentro uno spazio diverso, glaciale, ambiguamente acquatico. Altre volte, poi, al vuoto interno si sostituiscono altre materie vive: disposte su singole porzioni, in ordine militaresco o per disordini controllati, come se il gesto fisico divenisse un dettato pittorico che evidenzia le armonie cromatiche. Infine, ci sono quadri dove le stampe digitali riproducono i dettagli ingranditi di alcuni materiali nella cornice. Qui la tecnologia si presta al senso contaminato dell’intero progetto. La natura recupera l’artificio tecnologico ed esalta i pattern pittorici delle materie vive. Per Ianni l’elettronica è un passaggio funzionale nella complessità della natura contemporanea. Il quadro registra così le nature artificiali del presente attraverso i mezzi dell’innovazione. Manualità e tecnologia confermano un dialogo ormai diffuso, forse uno dei momenti più utili per dare contenuti importanti alle evoluzioni estetiche dei nostri giorni.

Il lavoro di Ianni parte quindi da un continuo accumulo di materie reali. La sua azione sceglie diverse spiagge con caratteristiche peculiari, legate alla storia etnografica e geologica di un territorio. Dai colori e dalla consistenza dei sassi ci rimanda a percorsi geografici, valori culturali, specificità antropologiche. Nonché ad ispirazioni personali, a suggestioni e slanci emotivi. Gli stessi soldatini in plastica o le biglie diventano parte del dinamismo umano che anima i paesaggi. I piccoli giochi richiamano valori storici, temi metaforici, simbologie di facile o complessa interpretazione. Ma anche qui, seguendo il filo sentimentale, i giochi ci portano verso le suggestioni sue e di chi usa lo sguardo in modo emozionale. Ogni elemento connette la macrostruttura del mondo con le microdimensioni dell’esperienza individuale. Una sorta di passaggio energetico tra la presenza effettiva delle cose e il loro disporsi nello spazio perimetrale del quadro. L’artista compie la glaciazione controllata di frammenti evocativi del paesaggio contemporaneo.

Il progetto per L’Aquila nasce nei termini effettivi di un impianto coerente e sinergico. Il catalogo, ad esempio, si pone come quadrato perfetto che occupa l’ideale zona vuota dentro il bordo. Una tiratura speciale, inoltre, prevede una cornice come contenitore fisico del prodotto cartaceo. Si tratta di un’opera a tutti gli effetti, prodotta manualmente come i quadri perimetrali della mostra. La grafica del catalogo, poi, racconta la materia attraverso i fondali delle singole pagine. Gli ingrandimenti e le sfocature di ogni opera occupano l’area dentro la cornice, si contaminano con le parti esistenti del quadro. Infine la mostra, momento di sintesi definitiva del cerchio progettuale. Il luogo prescelto simboleggia la chiusura protettiva di un edificio che perimetra la propria sicurezza difensiva. Usare uno dei bastioni significava entrare nel cuore di una cornice architettonica, nella struttura concentrica in cui la superficie del vuoto diviene spazio espositivo per l’installazione.

I quadri perimetrali dialogano tra di loro, distillano nuove evidenze attraverso l’allestimento fisico nello spazio. L’ambiente cambia nel momento in cui il quadro “mangia” una porzione di luogo. L’opera inquadra la fetta di ambiente prescelto e ne sottolinea l’autonoma bellezza.

Ogni vuoto mostra una sua forma di pienezza.
Ogni pieno mostra una sua idea di sintesi.

Incorniciare per aprire lo sguardo oltre lo spazio interno...

Gianluca Marziani 2002





DAL SEGNO ALLA GOMMAPIUMA

Parte dal segno il viaggio espressivo di Stefano Ianni: il segno come traccia, come gioco, come dimensione, dapprima mentale e dopo miocinetica, che crea i semēia, come li chiamavano gli antichi greci, ovverosia le testimonianze visive di un vissuto esistenziale che eraclitamente trascorre dentro il tempo e nello spazio. Ma il segno è anche un’impronta del sogno e quindi può essere – come di fatto è nella produzione giovanile dell’artista aquilano – strumento di costruzione onirica e lirica del reale. Sicché esso si compone in figure per raccontarci cose leggere come l’aria, poesie visive bilicate tra la fantasia infantile e quella degli adulti che non vogliono rinunciare alla possibilità di rimanere, almeno in parte, bambini. Fino a quando si trasforma in un labirinto (quindi in una sequela più complessa, quasi un’architettura di segni combinati) che rappresenta uno schema antropologico simbolo della multiformità del composito processo esistenziale.
Nel periodo creativo del quale stiamo parlando – e che corrisponde grosso modo agli inizi del decennio Novanta del secolo scorso – si fa evidente il suggerimento stilistico derivato da certi esiti europei (quelli che Alberto Boatto ha giustamente definito “poetiche dell’oggetto”) della originaria Pop-Art anglo-americana.
Poi il segno, nel procedere linguistico di Ianni, si apparenta con il colore (anch’esso segno dell’anima) e così la narrazione semiotica si fa anche racconto cromatico in un sodalizio che, come avveniva nei matrimoni solidi d’un tempo, non subisce più separazione alcuna. Ad un certo momento (più o meno verso la metà degli anni Novanta) compare, all’orizzonte del lessico del nostro artista, la “cornice” che pone confini al dinamismo segnico e cromatico. Ma si tratta di confini che non sottolineano tanto il senso del limite quanto piuttosto agiscono da esaltazione della superficie dinamica e di ciò che in essa si verifica. La cornice, insomma, separa due spazi , quello del quadro vero e proprio (il piano di proiezione all’interno del quale segni e pigmenti pittorici si susseguono e si rincorrono) e quello che sta al di fuori del dipinto e nel quale, con la sua fisicità, vive ed opera il mondo che si intende rappresentare attraverso la via dell’interpretazione.
La cornice non è un elemento gratuito, obbligatorio e dunque sostanzialmente anonimo. Al contrario essa si carica di valenza estetica, si fa terzo elemento linguistico (dopo il segno e il colore) a fondamento della grammatica del pittore abruzzese. Perciò diventa oggetto curato, intagliato, elaborato insomma da una sapienza artigianale trasformata in qualità artistica e, in quanto tale, concorrente al risultato finale di artisticità dell’opera che la ingloba facendola propria. In questi cicli pittorici del “perimetro” non esiste il quadro con la sua cornice, ma il quadro è costituito anche dalla cornice. Presto il segno, pur restando il dato di partenza dell’avventura espressiva di Stefano Ianni, non basta più a connotare, coniugato col colore, la parte centrale dell’elaborato pittorico. Nell’artista si sviluppa e si palesa un bisogno di concretezza che sia capace di dare materialità e spessore al mixage segno-colore il quale deve restare caposaldo del dire artistico, ma caricandosi anche di una valenza plastica. E’ così che  nella porzione centrale dell’opera entrano i materiali di natura combinati con quelli artificiali della produzione industriale.
Siamo sul finire degli anni Novanta e al principio del XXI secolo: le opere si compongono di resine, di sabbia granitica, di sabbie miste, di plastiche, di legni, di sassi, di gommapiuma e, poiché la tecnologia avanza, anche da segni di quella informatica, con “fogli” di pittura digitale inserita all’interno del racconto di Ianni che, in appena un decennio, si è linguisticamente irrobustito.
Non v’è dubbio che l’artista aquilano sia rimasto coerentemente legato ai valori emozionali, al sentimento, a quella scossa sensuale attraverso la quale si pone in libertà la dimensione spirituale degli individui. A partire dal segno – che era lirico sin dagli esordi – egli ha via via arricchito il suo portato lessicale di elementi eterogenei ma tutti accomunati dalla medesima volontà e dall’attitudine a farsi veicolatori del sentimento. I legni, le plastiche, le sabbie, le pietre, variamente combinati, hanno sempre sortito l’effetto di dar vita ad un fil rouge, sotteso alla struttura linguistica, di natura lirica e sentimentale. Sicché uno dei materiali utilizzati ultimamente, la gommapiuma, gli si è rivelata come strumento formidabilmente adatto alla trasmissione delle energie emozionali con cui egli, poeta visivo, intende continuare a raccontare il mondo e a proiettare all’esterno di sé la sua personale componente fantastica.
La gommapiuma è un materiale morbido, morfologicamente enfio, che può diventare finanche debordante ed in una riproposta delle modalità espressive neo-barocche (per certi versi presenti nel nostro tempo come imprescindibile necessità di risposta a pressioni razionaliste esasperate) esso si presta egregiamente ad offrire risposte sensuali ed emozionali agli interrogativi esistenziali contemporanei. Perciò Ianni la sceglie come protagonista delle sue ultime produzioni. Un gommapiuma che si traduce in volute semisferiche, che assume una verosimiglianza carnale, che accentua la sua tendenza iperbolica grazie al colore, che punta a conquistare ogni spazio e che radicalmente stravolge il concetto tradizionale del quadro come porzione di spazio  delimitato geometricamente dalla cornice rettangolare o quadrata.
Anche se, come abbiamo già detto, la cornice di Ianni non è mai stato un segnale di limite  ma, all’opposto, quello di una vera e propria componente dell’opera, essa finiva però pur sempre per segnare l’esistenza di due spazi fisici: quello del manufatto artistico e quello del mondo. Oggi il debordare della gommapiuma fagocita la cornice, la trascina dentro di sé e da segno indicatore di due spazi distinti la trasforma  in un elemento lessicale interno.
In questi ultimi lavori Ianni accentua il movimento che da virtuale e rappresentativo qual era all’inizio, al tempo degli esordi segnici, ora si fa reale e veloce (perché agisce con la stessa velocità del tempo moderno) e, auditivamente parlando, diventa musica sinfonica in crescendo espansivo. Dal punto di vista sentimentale esso costituisce sicuramente un’accentuazione emozionale e tende ad un fine di rappresentazione persuasiva: forse perché proprio di questo c’è oggi bisogno in quanto, mentre si fa un uso esasperato e fittizio della razionalità elevata a mito falsamente risolutore di tutti i problemi del mondo, sembra che in realtà si stia smarrendo del tutto l’uso della ragione. E allora se le lingue parlate che l’uomo utilizza non servono più per capirsi ( ci avviamo velocemente verso una nuova era da Torre di Babele?) si dia spazio ad un linguaggio di portata più universale e trasversale qual è quello dei sentimenti non inquinati e deformati dagli apparati ideologici il quale, attraverso la sua manifestazione più propria, l’arte, sappia far riflettere l’umanità per indurla al recupero delle sue origini unificanti. Pena la distruzione del creato.

                                                                                                                               Armando Ginesi 2007    






Non ho mai chiesto a Stefano Ianni se al fondo del suo ciclo iniziale, che intrecciava cavalli e labirinti, avesse mai presentito l’oscura e problematica presenza di Poseidone, che in tutte le forme in cui i due miti greci si danno, costituisce una specie di  drammatica ed imperiosa condicio sine qua non perché le vicende possano essere narrate. L’essenza del cavallo, d’altra parte, è marina, e Ianni sembra proprio volerne inseguire la traccia, piegandola a farsi riflesso di luce sullo sfondo del mare. Se in quegli esperimenti ormai lontani, era il segno a farsi carico dell’inquietudine – la schiuma bollente dell’immagine che trasponeva insieme il furor incontrollabile del gesto stesso della pittura –, gesto e segno si allargano nella produzione successiva, attraverso contrapposizioni in cui il colore interviene principalmente come ritmo di una narrazione invasiva, assorbente, totale, strutturando vortici di flutti o rivelando il fiorire interno delle nebulose siderali, dando il taglio cromatico di un sogno e esponendone la materia come incisione d’anima. Credo che questo sia il motivo delle operazioni più divertite ed originali con le quali Ianni inaugura la sua stagione attuale: proprio quel  furor, quell’elemento che chiude insieme fiato e schiuma, si organizza dapprima come taglio, liquidità, operazione di selezione e definizione delle forme interne alla cornice, di cui leviga e definisce la disposizione, spesso obbligando l’autore ad accogliere la presenza evocativa della sabbia; poi, diventa contrapposizione, contrappasso cromatico che esplode verso la cornice stessa e la definisce in rapporti di inversione col contenuto, disegnando e plasmando di nuova vita entrambi, fino a farsi trasparente di sé; in ultimo, la schiuma tende ad imporsi e ad assorbire per intero le forme che contiene. Sappiamo che alla schiuma si connette una delle branche più attuali della fisica cosmica: Ianni sembra esserne consapevole ma aggiunge il tono, la direzione, il colore e la contrapposizione delle forme che la schiuma può assumere. Ne fa elementi cangianti di un’evoluzione non discreta e non contenutistica, emozionale, per evocare altri sensi nel processo dell’interpretazione. Anche qui, a suo modo, il colore è traccia ludica ed ontologica insieme: il provvisorio stato d’essere, quasi neutro, del Cavallarmato del 2004  (in cui l’elemento cromatico si rivela solo in un taglio, che definisce l’opera come meccanismo) non è diverso da quello delle coloratissime nuvole delle opere coeve: nella prima, l’elemento cromatico si rivela in un taglio, dicevamo, che mette a nudo il meccanismo interno; nelle seconde, agisce verso l’esterno come dissoluzione o dissipazione (fino a proporre una sua liquidità che, intervenendo la luce, diventa sconfinamento di toni e presenze sulla cornice - frame); mentre all’interno si fa legge, e definisce, seziona e contrappone il movimento, quasi tattile, della presenza.

Marcello Gallucci 2007







IN VIA ROSSO GUELFAGLIONE

E’ una via stretta e silenziosa. Stranamente tranquilla per essere nel cuore del centro storico dell’ Aquila e a dispetto del personaggio a cui è intitolata: Rosso Guelfaglione, un capitano di ventura del XV secolo, un tipo sicuramente poco raccomandabile. E' in questa via però che in un antico e suggestivo palazzetto vive e lavora Stefano Ianni.
Non appena si varca il portone di ingresso ci accoglie un odore di altri tempi. Nel cuore dell'abitazione però è tutta un'altra storia. Non sembra neanche di essere a L'Aquila. I colori delle stanze, le opere appese o sistemate in ogni angolo e soprattutto l'ariosa atmosfera del ballatoio - terrazza fanno di questo luogo un posto fuori dal tempo; la presenza dell'artista, del suo pensiero, della sua ricerca si respira in ogni parte eppure "...il luogo dove abito non deve coincidere con il luogo del fare - ci dice sicuro Stefano Ianni - la mia casa ha spazi ben separati perché non voglio nessuna distrazione, nessuna contaminazione quando lavoro". Insomma l'arte vissuta come assoluto ma non separata dalla vita quotidiana perché se è vero che lo studio dell'artista è situato al piano di sopra dell'abitazione è pur vero che quest'ultima è il luogo della riflessione, della lettura, della quiete feconda " soprattutto questa parte della casa ( la veranda di in un azzurro intenso e dalle grandi tende bianche) è un angolo speciale dove amo rilassarmi magari con una buona lettura. Qui ho voluto recuperare l'antico aspetto del palazzo che nei decenni scorsi era stato quasi completamente cancellato dalle diverse necessità dei vari inquilini. Attraverso uno studio ed alcune immagini antiche scoperte tra i miei libri ho potuto ricostruire lo spazio originario con i suoi tendaggi ma anche il suo colore, questo azzurro carico, trovato per caso sotto vari strati d'intonaco".
Si sta bene in questo posto, si può chiacchierare in tranquillità sorseggiando un ottimo caffè preparato dal padrone di casa. E le chiacchiere quando si ha di fronte un artista non possono che avere come argomento l'arte, soprattutto il suo fare arte.
"La mia arte è il risultato di tante sedimentazioni, non c’è un luogo in particolare da cui traggo ispirazione. Io, anche per il mio impegno di insegnante presso l'Accademia di Belle Arti, ho girato e vissuto in molte città italiane ed ho così sviluppato una discreta sintonia con le esigenze dei linguaggi contemporanei; questo non ha fatto altro che rafforzare in me la necessità di restare ancorato alla tecnica".
Una tecnica o meglio tecné che nasce in funzione dell'idea, dell'ispirazione. E' così, infatti, che prende vita la sua ultimissima produzione una serie di opere - gommapiuma - schiuma dai colori fortissimi quasi acidi dove l'artista osa accostamenti e forme impensabili che grazie al materiale usato, offre risposte sensuali ed emozionali.
A prima vista respingenti queste opere diventano poi amichevoli e accoglienti... basta toccarle... "E' una gommapiuma - scrive Armando Ginesi in uno degli ultimi cataloghi dedicati all'artista - che si traduce in volute semisferiche, che assume una verosimiglianza carnale, che accentua la sua tendenza iperbolica grazie al colore, che punta a conquistare ogni spazio e che radicalmente stravolge il concetto tradizionale del quadro come porzione di spazio delimitato geometricamente dalle cornici rettangolari o quadrate".
Ecco è proprio questo ultimo pensiero che ritroviamo anche nella casa di Stefano Ianni: non più spazi delimitati e precisi ma un fluire unico di elementi e di vita vissuta. Perché se è vero che in questa casa non c'è nulla che riguarda il lavoro nel suo farsi del proprietario, è pur vero che i segni e le testimonianze di quasi venticinque anni di attività sono tutti lì, ben presenti ed inevitabili a chiunque.
Così da una stanza all'altra si ripercorre anche la ricerca estetica che ha portato Stefano Ianni alle sue creazioni recenti. "Nel mio rifugio ho, inevitabilmente, ricreato il mio mondo che è fatto soprattutto della mia arte".
Fin dagli esordi nel 1983 quando le sue creazioni erano dettate da un segno evidente e fortissimo, segno come gioco, come traccia, come dimensione mentale; un segno che man mano si colora che diventa racconto cromatico in un sodalizio ancora oggi inseparabile. Finché non arriva la cornice che superando la tradizionale obbligatorietà si carica, nelle opere degli anni novanta, di valenza estetica, si fa terzo elemento linguistico, dopo il segno e il colore, e fondamento del suo lessico ".
“E’ stato questo il momento di inizio della sperimentazione che oggi mi ha fatto approdare alle opere realizzate con le schiume. Materiali e tecniche che però mi permettono di elaborare i miei ricordi, quelli di vita vissuta, nascono così, per esempio i lavori dedicati alle sabbie di tanti luoghi visitati; veri e propri ready made congelati in uno spazio senza tempo".
E' tutto questo quello che si ritrova nella casa di Stefano Ianni, lavoro e vita inscindibili ed indissolubili in maniera tale che ognuno si nutra e viva dell'altro. Così il passaggio dall'abitazione allo studio non cambia lo scenario. C'è solo più confusione, quella confusione di una vera e propria fucina. Per il resto torna la stessa atmosfera colorata e serena del piano sottostante, certo qui lo sguardo si sorprende ad ogni battito di ciglia: tele, disegni, libri e poi pennelli, colori e strumenti tra i più strani sono ovunque per ricreare quella allegra e danzante fisicità delle ultime schiume.
Basta guardarsi attorno e dal manifesto appeso all'ingresso che recita "Nuovissima ondata Artistica Abruzzese - Personale di Stefano Ianni, luglio - agosto 1985", alle schiume di oggi, tutto parla dell'artista e di venticinque anni di lavoro e di sperimentazioni. "Nonostante tutto - conclude Stefano Ianni - in arte sono un tradizionalista legato alla tecnica e questa casa nel cuore antico della mia città lo dimostra". Usciamo da questo incontro e da questa casa con gli occhi e la mente ancora impegnati a decifrare la gran mole di impulsi e sollecitazioni, nel cuore però resta l'immagine e il sapore di una terrazza dall'azzurro intenso e dalle grandi tende mosse dal vento.


Angela Ciano,  in D’Abruzzo n° 83 - autunno 2008





Still lives and memories in fur
Posseggono le cornici una vita autonoma, una propria dignità estetica, rispetto al quadro che racchiudono o dovrebbero racchiudere? E’ nota, ad esempio, la cura dei responsabili di grandi musei per dotare i dipinti famosi di cornici adeguate, storicamente congruenti. Non è isolato il caso di qualche tela mediocre, per non dire di qualche misera crosticina, acquistata (e poi magari immediatamente rivenduta) per accaparrarsi una cornice, invece, superba. Ma questa è faccenda tutta da museografi se non, addirittura, da arredatori. Stesso ambito di qualche raffinata bottega antiquaria, specializzata in preziosi legni intagliati rinascimentali e barocchi, in selezionati assortimenti di Salvator Rosa armoniosamente profilate e di eleganti incorniciature impero con le loro foglie di alloro dorate. E, certo, la cornice svolge un ruolo fondamentale nella presentazione e valorizzazione di un dipinto: un’opera modesta può trarne una nobilitazione altrimenti immeritata; e, al contrario, un capolavoro può venire offuscato e perfino umiliato dalla cornice sbagliata. Fermo restando che, se del quadro viene senz’altro riconosciuta l’appartenenza al dominio dell’arte, la cornice è altrettanto automaticamente, benché talvolta sommariamente, relegata nell’ambito dell’artigianato.
L’interrogativo iniziale era però indirizzato al contesto contemporaneo, e a questo proposito il referente che balza subito alla mente è quello dei Futuristi e di Giacomo Balla in particolare. Se, tradizionalmente, la cornice valeva, al contempo, da delimitazione e da rispetto visivo di un determinato quadro, Balla e i suoi compagni di strada aspiravano ad un obbiettivo addirittura opposto. Il dinamismo in pittura significava anche l’infrazione di quella barriera perentoria tra la pittura e l’ambiente; la cornice doveva diventare parte dell’opera, essere essa stessa dipinta e sagomata, assurgere alla nuova dimensione della pittoscultura, farsi una sorta di sponda radiante verso l’intorno.
Da quasi un quarto di secolo a questa parte (nessuno stupore: Stefano Ianni è ancora giovane, ma ha cominciato a lavorare giovanissimo, nel 1984, e chi scrive ha avuto l’opportunità di seguirlo fin dagli esordi) egli è stato fortemente attratto dal tema della cornice, dalla perimetrazione dell’oggetto estetico. Motivo affrontato dapprima in quanto tale, con il ciclo Segnali nel labirinto, tema quest’ultimo da sempre particolarmente confacente all’artista. Ianni intendeva allora la cornice come opera autonoma, improntata ad una vivacissima risoluzione cromatica, per poi approdare – con il ciclo Materiali del sogno, che risale al 1993-1999 – alla dimensione plastica, mediante la risoluzione sagomata e modellata. Ma già con il ciclo Perimetra (2000 – 2002), un titolo eloquente, egli realizzava singolarissime cornici, mediante l’impiego di  polimeri: materiale, del resto, che Ianni continua ad usare ancora oggi; e ciò costituisce una delle molte testimonianze della serrata continuità e coerenza linguistica del suo lavoro.
Non a caso, in Perimetra, dove operava la lezione futurista, era appunto il ruolo contestualizzante e perimetrante ad attrarre Ianni; basti tener presente il ricorso, insistente ed eminentemente metaforico, al topos della cornice nella cornice, che interessa anche i lavori più recenti di Ianni (In; http.//, entrambi del 2011).
Un poco alla volta, l’artista è venuto recuperando la presenza e il ruolo del quadro, della pittura, al punto di accedere ad un magari sintetico linguaggio pittorico-figurale. Ma, nel contempo, egli ha anche associato alla tela e ai tradizionali supporti pittorici il ricorso a una pelliccia di perentorio colore nero, che gli ha consentito di conseguire svariati risultati: innanzitutto uno cromatico, un fondo misterioso, ricco di nuances, non ottenibile neppure con il migliore dei colori a tempera; e poi la sorpresa e l’attivazione istintiva del gusto tattile. Il quadro finirà, infatti, con l’assumere l’evidenza tridimensionale ed estroflessa di un cuscino, grazie al materiale, che si presenta morbido, di consistenza quasi spugnosa, ma più raffinato.  Riesce istintivo scorgere, in questo superamento dei procedimenti e dei materiali tradizionali della pittura e della scultura (ammesso che sia ancora possibile, in regime di contaminazione, una loro identificazione), l’adesione dell’artista ad un’attitudine tipicamente ibridante e postmoderna.
Ianni si inserisce, a questo proposito, in una dialettica naturale-artificiale, acculturato-primordiale, che, alla scaturigine prima, potrebbe perfino evocare il nome di un Pascali; magari all’insegna di una Pop rivisitata, del resto, parecchio congruente con svariate opere del nostro artista (basti pensare all’icona illuminante Fur.bi). Ma, a ben vedere, egli rivela a questo riguardo i frutti della selettiva rivisitazione della costola più ibridata del secondo ‘900, a cominciare dal New Dada.
Con il che si giunge alla mostra presente in cui si espone una venticinquina di opere appartenenti all’ultimo quinquennio di attività di Ianni, peraltro con qualche significativo antecedente. La rassegna si fregia di un titolo inglese Still lives and memories in fur (Nature morte e memorie in pelliccia), da non intendersi come ostentazione di esotismo, in quanto sarà opportuno ricordare come l’espressione italiana natura morta, così diffusamente entrata nel parlare comune da non poterne proporre una sostituzione, costituisca in realtà una formula poco felice, di fronte alla capacità evocativa dell’inglese vita silente. Il termine inglese fur ci riconduce invece alla pelliccia, ammiccando altresì alle voci latine Furo e Furor, evocazioni della furia, della frenesia, del delirio, attitudine cui Stefano Ianni ha affidato l’omonima opera del 2008.
Si attiva qui l’emersione delle memorie esistenziali: il mare, la spiaggia, la riviera adriatica. Una vera e propria recherche; basti pensare al vago e lirico riflettersi nella marina delle case illuminate nottetempo, affidato al registro della descrizione pittorica; o ancora alle guizzanti composizioni di pesci: e qui l’artista può pure allacciare i contatti con una tematica rituale della natura morta. Ma l’osservatore vi scorgerà pure la traccia di più recenti esperienze di vita.
In questo contesto, può talvolta accadere che la cornice addirittura scompaia. Ricollegandosi al già ricordato ciclo Perimetra, dove l’artista faceva pure ricorso a tecniche altre come la fotografia digitale, Ianni avvolge la composizione con una pellicola di nylon trasparente, includendovi materiali disparati come la sabbia delle spiagge frequentate, i soldatini dei giochi infantili, qualche figurina di plastica, e via di questo passo. Si attiva in questo modo una sorta di analogia con l’ambra che racchiude e conserva al suo interno l’insetto catturato dalla resina. Anche a questo proposito i referenti estetici sono molti, a cominciare, poniamo, da un Arman e dai procedimenti operativi del Nouveau Réalisme; ma interpretati in accezione molto personale.                             
Il motivo della memoria, inteso ora come traumatica frattura e distacco, sottende pure alla parte più recente del lavoro di Ianni: il terremoto dell’Aquila, con la distruzione del bellissimo, tanto amato e curato, studio in centro città; la drammatica via di salvezza; il forzato esilio a Montesilvano. Non a caso, il visitatore constaterà uno iato drammatico, il silenzio di un anno intero: quel fatale 2009.                                             
Le atmosfere notturne, emergenti dal nero vello, e, accanto, le luminose accensioni cromatiche mi sembrano insomma testimoniare entrambe le attitudini – il dramma e il riaffermarsi della speranza e della vita – che hanno presieduto all'attività di Stefano Ianni nell’ultimo, difficile ma anche vitalissimo, triennio.


Carlo Fabrizio Carli, in catalogo mostra al Mediamuseum, Pescara, gennaio 2013








Dal quotidiano La Città inserto del Resto del Carlino di martedì 12 febbraio 2013
Still Lives and Memories in Fur
La storia artistica di Stefano Ianni racchiusa in un catalogo pubblicato da Noubs Edizioni

Alessandra Angelucci

Quando si ama l’ arte è sempre così: le scrivanie si riempiono di libri, di cataloghi che sanno di storia, di incontri e solitudine, ma anche di amore per il luogo in cui si vive e di passione per la tradizione che rappresenta l’ animo di chi crea. Quando si ama l’ arte, l’ abitazione in cui si vive prende respiro dalle opere che si fanno parete e dalla gestualità di quegli artisti che hai incontrato o che vorresti incontrare.
A colpire la curiosità questa volta è un catalogo d’ arte pubblicato da Edizioni Noubs, avente per titolo “Still Lives and Memories in Fur”: un formato piccolo, elegante, sulla cui copertina è raffigurata una porta di colore celeste che invita ad entrare in un mondo tutto da scoprire, un mondo fatto di colori e paesaggi, di tele e cornici, di opere d’ arte che raccontano una storia, quella dell’artista Stefano Ianni. Di origine aquilana, già conosciuto ai più come docente di pittura presso l’ Accademia di Belle Arti del capoluogo abruzzese, Stefano Ianni ha da poco presentato la personale “Nature morte e memorie in pelliccia” (traduzione del suddetto titolo inglese) presso il Mediamuseum di Pescara, esponendo ben venticinque opere che hanno messo in evidenza la maturazione di un nuovo e più recente modo di sen- tire l’ arte e di vivere l’ intima ricerca espressiva, cominciata nel 1983.
È “Furor” (anno 2008) ad inaugurare la sequenza dei lavori esposti: un’ opera “di contatto”, si potrebbe definirla, dove l’ osservatore, se vuole, assume un ruolo strategico nella composizione e scomposizione della materia che la costituisce, descrivendo percorsi nuovi al solo passaggio della mano sul morbido supporto che la definisce. Basti ricordare che il termine anglosassone “Fur” sta a significare “pelliccia”, sostanza di cui è appunto costituita la base dell’ opera ed è da questa che ha avuto inizio l’attuale ciclo di lavori. “Furor” per rappresentare un gorgo, su pelliccia sintetica di colore nero, metafora di un abisso che assorbe ogni cosa. Un legame semantico si riscontra, a tal proposito, anche nel titolo inglese della rassegna (Still Lives and Memories in Fur) che - afferma Carlo Fabrizi Carli - «non è da intendersi come ostentazione di esotismo, in quanto sarà opportuno ricordare come l’ espressione italiana “natura morta”, così diffusa- mente entrata nel parlare comune da non poterne proporre una sostituzione, costituisca in realtà una formula poco felice, di fronte alla capacità“vita silente”. Il termine inglese “fur” ci conduce invece alla pelliccia, ammiccando altresì alle voci latine “Furo” e “Furor”, evocazioni della furia, della frenesia, del delirio, attitudine cui Stefano Ianni ha affidato l’ omonima opera del 2008».
A partire da questo anno egli si de- dica all’ elaborazione di un nuovo linguaggio, in cui l’ opera prende vita su un supporto di pelliccia sintetica, si colora di nuances ben definite, dove a prevalere è il nero con le sue sfumature, quando a brillare sono le luci dei paesaggi costieri d’ Abruzzo, o il bianco,
quando è la natura morta a farsi così vera che sembra quasi guizzare e fuoriuscire dalla tela, accostandosi così ad un esplicito rimando di sapore realista. Nature morte che per ossimoro potrebbero definirsi dinamiche e vigorose, tanta è l’energia del tratto e delle linee che disegnano i corpi dei pesci.
Le opere presentate attivano ricordi che hanno accompagnato la vita dell’ artista, ma che di certo possono dirsi propri anche di chi, nella terra d’ Abruzzo, ha avuto la fortuna di passeggiare sulla riviera adriatica e, da qui, assaporarne gli odori, i sapori, i colori: pesci azzurri si ravvivano di sfumature argentee per rendere omaggio ad una tradizione, come quella della pesca, che da secoli rende attiva la nostra regione, in veste di preziosa risorsa economica.
Non è soltanto questo, però, l’unico modo in cui la creatività di Ianni si esprime al fine di omaggiare la sua terra. Il mare e la spiaggia diventano protagonisti di narrazioni notturne, in cui non c’ è più il dettaglio realista a prevalere, ma c’ è l’ emozione di un fotogramma, c’ è l’ immaginazione che rincorre le insenature della coste pescaresi, attimi in cui sono le luci accese del lungomare ad urlare al mondo che la vita c’è e pullula di speranze, anche quando è la notte il colore prevalente.
Molto interessante è il momento in cui l’ opera abbandona la cornice e si fa tutt’uno con il mondo esterno, essendo avvolta da uno strato di pellicola di nylon trasparente che Ianni adopera quasi volesse “conservare” la creazione, lasciando sempre giovane il suo “status” ed accesa la memoria del passato.
La storia dell’arte lo insegna: la cornice è l’elemento del moto, il suo destino è l’essere attraversata, l’essere il tramite tra differenti dimensioni. Demarca originaria- mente il passaggio tra paesaggio e architettura, quale elemento necessario per dare avvio ad un inizio, ad una nuova partenza. Come ponte tra il prima ed il dopo, il fuori ed il dentro, la cornice risulta essere un limite tendente all’ infinito tra il pieno ed il vuoto. La cornice è dunque, sin dal principio, quell’ elemento capace di delimitare e decontestualizzare lo spazio, attraverso una chiusura dell’ esterno verso la fruizione dell’interno. Stefano Ianni rompe questo equilibrio e lo fa nel ciclo “Perimetra” e dei “Materiali del sogno” (1993- 2009), permettendo all’opera di trovare un nuovo ritmo, un nuovo spazio, una nuova armonia. Quella medesima conciliazione che nella sua rassegna sussiste tra sentimento nostalgico e speranza nel domani.


Dal quotidiano La Città inserto del Resto del Carlino di venerdì 26 luglio 2013

Stefano Ianni, art forever young
A colloquio con l’artista abruzzese in mostra nella collettiva del Giffoni Film Festival
Di Alessandra Angelucci

E' giunto alla 43sima edizione il prestigioso Giffoni Film Festival 2013 che, nato nel 1971 da un’idea di Claudio Gubitosi, continua a promuovere e far conoscere il cinema per ragazzi, elevandolo dalla posizione marginale che occupava al tempo ai ranghi più consoni di un “genere” di grande qualità e capacità di penetrazione del mercato. Evento collaterale al Festival è l’importante mostra d’arte contemporanea “ArtForever Young” a cura di Salvatore Colantuoni nel complesso monumentale San Francesco di Giffoni Valle Piana (Salerno, in esposizione fino al 28 luglio). Una mostra che, oltre ad essere fedele al tema prescelto per l’intera rassegna, trova ispirazione nel brano “Forever Young” cantato dagli Alphaville, in cui si dice: Youth’s like diamonds in the sun and diamonds are forever”. Tra i diciotto artisti partecipanti spicca il nome dell’aquilano Stefano Ianni, pittore abruzzese già noto per la sua particolare ricerca, nonchèdocente di pittura all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. Nelle sue parole la sua ultima emozione e la personale visione del fare arte.

- Cosa significa per lei partecipare alla mostra d’arte contemporanea “ArtForeverYoung”, evento collaterale al noto Festival Cinematografico “Giffoni”?

«È la quarta edizione a cui partecipo. Le prime tre sono state: “IMAGO AMORIS”, “LINK” e “HAPPY ART”. Partecipare al “GiffoniFilmFestival” ha un valore  molto profondo, perché significa contribuire, con la propria opera, a dare forma al tema che l’organizzazione del Festival ha deciso di sviluppare per la specifica edizione. Il complesso monumentale di San Francesco, luogo in cui è stata allestita la mostra di arte contemporanea, è sicuramente una location d’eccezione, uno spazio suggestivo che fornisce una collocazione ad hoc alle opere che non riguardano l’ambito strettamente cinematografico o televisivo, ma di certo ne condividono la tematica. I ragazzi che partecipano al GFF sono invitati ad esprimere un giudizio sui lavori esposti, parere che poi decreterà, insieme a quello on line, il vincitore di questa sezione della manifestazione. Un evento a tutto tondo, grazie anche ai laboratori didattici al cui centro si pone il confronto tra gli artisti e i ragazzi».

- “Art Forever Young” è il tema su cui è stato chiamato a riflettere e quindi a creare l’opera esposta. Mi racconti.

«Premetto che le mostre “a tema” sono sempre più impegnative rispetto alle normali manifestazioni di arte contemporanea, in cui i curatori invitano artisti per interagire con gli spazi espositivi, attraverso opere che non si discostino assolutamente dalla propria poetica. Anzi, in molte occasioni viene data carta bianca e, dove possibile, si preferisce realizzare opere site specific per esaltare al massimo il potenziale dell’espressività del singolo e valorizzare il contesto espositivo.
Il mio è un lavoro di ricerca prevalentemente legato alla trasformazione dei materiali. Ciò rientra nella magia della pittura che ha permesso da sempre di dar vita a capolavori attraverso l’uso di alchimie cromatiche su superfici bidimensionali. Ma il Novecento ci ha insegnato che esistono tante definizioni di pittura e diverse dimensioni e contestualizzazioni dell’opera, che concorrono a dimensioni poetiche atte ad esprimere una realtà in continua evoluzione. Nonostante i vari “ismi” e nonostante le diverse esperienze di tutto il XX secolo, la pittura ritorna e prepotentemente ricorda la sua storia e la sua primaria posizione nella graduatoria dell’espressività. Il lavoro che ho realizzato è proprio un’esaltazione della pittura come elemento primario, quasi magmatico della creazione. In una forma ovale si dispongono varie sovrapposizioni cromatiche atte a formare i piani ed i colori di un paesaggio marino, dai gialli più forti fino al celeste che sfuma in verde acqua. Si tratta di materie morbide, della consistenza della spugna che, adeguatamente lavorate, permettono anche un approccio tattile. Su questa superficie ho collocato una doppia fila di scritte con la dicitura del titolo della mostra: “Forever Young”. Il grigio delle lettere interagisce fortemente con il fondo. Mi tornano in mente le parole di Picasso e Braque quando riflettevano, nel periodo del cubismo sintetico, sul valore delle lettere riportate con gli stencil sulla base pittorica. Un modo particolare di interazione tra la parola e la pittura...»


- “L’Arte sempre giovane”: questo sembra essere l’auspicio che la mostra curata da Salvatore Colantuoni rivolge agli artisti e al pubblico. Come si collega questo tema con la caducità della società e forse anche dell’arte di oggi.

«Quello di quest’anno è un tema quanto mai attuale. L’Arte ha da sempre attraversato nel corso dei secoli avvenimenti che, socialmente parlando, hanno trasformato, ridefinito e a volte distrutto intere generazioni; nonostante tutto però l’arte è rimasta immutata testimone di ogni fase evolutiva della civiltà. Oggi non è diverso. Nell’epoca della globalizzazione si può ancora riflettere sulla giovinezza dell’arte e su quanto sia importante un pubblico altrettanto giovane, che se ne nutra e cresca con essa».

- Lei crede nell’arte come strumento di comunicazione che possa, nelle sue varie manifestazioni (pittura, scultura, installazioni, fotografia), interpretare il presente, renderlo rintracciabile tra le pieghe del tempo e, dunque, renderlo eterno?

«Certamente sì. L’Arte può e deve fare ancora questo. Sia per chi si esprime in modo soggettivo sia per chi lo fa in modo oggettivo. Voglio dire che ora è possibile stabilire parametri di lettura ugualmente validi sia per chi l’opera la presenta, sia per chi, attraverso l’opera, rappresenta la propria visione della realtà».

- Lei è anche docente di pittura all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. Cosa direbbe ai suoi studenti, se dovesse definire il concetto del “rendere vero” un soggetto in ambito pittorico?

«Una volta Picasso fu avvicinato da un signore che gli mostrò una fotografia di sua moglie: “Guardi quest’immagine! Questa è realistica, non le sue cose”. Pablo prese la foto, la guardò con attenzione, poi si rivolse a quell’uomo e disse: “Sua moglie è alta dieci centimetri ed è in bianco e nero?” ».

- E cos’è che, invece, può definirsi “forever young” in pittura?

«Il ritratto di Dorian Gray…però al contrario».

- Quale elemento accomuna lei agli altri 17 partecipanti alla mostra?

«Sicuramente il curatore, Salvatore Colantuoni. Egli mi segue da molti anni con attenzione e passione e abbiamo condiviso numerose esperienze insieme, sin da quando era in “Alitalia” con il programma “Alitalia nell’arte”».

- Lo scorso inverno abbiamo avuto modo di ammirare le sue opere alla mostra “Still Lives and Memories in Fur”, realizzata al Media Museum di Pescara. Il prossimo progetto?

«Per ora sto portando avanti questa nuova ricerca per realizzare, a livello espositivo, qualcosa di molto impegnativo nel 2014. Lascio un po’ di mistero, ma vi terrò informati al momento giusto».












Dal catalogo della mostra RoccArt - Segno Colore Materia

Silvia Cicoria

Montesilvano colle (PE), 6 agosto 2013

Stefano Ianni, artista aquilano oggi residente a Montesilvano, conosciuto ed apprezzato da molti come artista e docente di pittura, è un artista ironico e concettuale. Si presenta in mostra con un'opera capolavoro "Prede" realizzata con pelliccia dipinta e cornice scolpita. All'artista è sempre stato caro il tema della cornice, sfruttato come luogo di elaborazioni giocose ed imprevedibili, e come manifestazione artistica a pieno titolo. Nell' opera "Prede" una pelliccia maculata viene dipinta di azzurro e sono disegnati dei pesci di color bianco, nature morte, appunto, costruzione del reale nel vissuto della costa abruzzese. L'opera di Ianni secondo Carlo Fabrizio Carli "Si attiva qui l'emersione delle memorie esistenziali; il mare, la spiaggia, la riviera adriatica. Una vera e propria recherche; basti pensare al vago e lirico riflettersi nella marina delle case illuminate nottetempo, affidato al registro della descrizione pittorica; o ancora alle guizzanti composizioni di pesci: e qui l'artista può pure allacciare i contatti con una tematica rituale della natura morta. Ma l'osservatore vi scorgerà anche la traccia di più recenti esperienze di vita".




Fluctus
Pescara, Aurum "Sale Cascella" 17 Luglio 2014
Ricominciare dal bianco.
Il ciclo delle prede nel Fluctus di Stefano Ianni.
di Alessandra Angelucci

È dal bianco che vorrei cominciare. Da quel colore in cui germogliano infinite possibilità, persino la potenza del negativo e il tormento dell’assenza. Un’epifania incoronata di luce in cui un ricordo - forse un presagio - spicca dal nulla e vibra: qualcosa cede, rimbalza tra i flutti, ti guarda e poi tace. Ha smesso di lottare fra i rivoli spenti di una rugiada di mare. Una lacri- ma asciutta resta fra le mani, sa di sale: parla di noi e di pescatori lontani. Il bianco resiste, come l’eterno in cui la vita è data oppure ne- gata. Il bianco, come quel colore che l’artista aquilano Stefano Ianni sceglie - e volutamente fa proprio - per congelare le tracce di una na- tura che da alcuni anni si offre ai suoi occhi: la parola è offerta dalle onde, la pupilla è aperta, la palpebra è socchiusa. Chi osserva le opere ne coglie subito la traccia narrativa: la luce dei sup-
porti in pelliccia accoglie le nature morte che nella spuma marina hanno trovato dapprima la nascita e poi la fine. Del resto, aveva ragione Philipp Otto Runge, quando avvertiva che «vita e morte, nascita e sepolcro, sono una cosa sola nella profondità chiara». Ed è da questa «pro- fondità chiara», da una «totalità bianca» - di- rebbe altrimenti Jabés - che ha vita “Fluctus”, l’ultimo progetto artistico di Stefano Ianni, che nelle sale “Cascella” dell’Aurum di Pescara pro- pone al pubblico la sua recente produzione. “Fluctus”, come anticamente i latini chiama- vano l’onda del mare tutelata dal dio Nettuno: quel ricamo infinito fatto di correnti e flutti, di spinte sotterranee temute dall’uomo, a cui l’uo- mo stesso però ha sempre guardato per affidare alla carta o alla tela una parola vergine, una pau- ra sospesa, l’assedio di una nostalgia. Un solilo- quio bianco e neutro, come nelle opere del ciclo “Prede”, in cui Stefano Ianni dipinge facendo vivere su pelliccia sintetica il movimento impla- cabile dello scenario naturale a cui egli guarda con occhio indagatore. Il mondo marino così come si cristallizza nei suoi ricordi e fra gli spazi diafani cuciti addosso ai dialoghi intercorsi coi pescatori.
La memoria ha bisogno di trovare respiro e collocazione salda nello spazio in cui rivive: il supporto in pelliccia invita all’esperienza tattile, a toccare con mano quell’immagine che - altri- menti - sembrerebbe perdersi. Ma la memoria fluttua, ondeggia fra la certezza di un segno marcato e la forma che scava significanti nell’a- ria. Ecco perché, in alcuni casi, l’opera è avvolta da una pellicola di nylon trasparente, quasi a voler sigillare ciò che alla mente riaffiora, e la- sciarlo lì, resistente ad ogni impercettibile sospi- ro fra un battito di ciglia e un altro.
«Un sottovuoto», dice l’artista, in cui il ricordo resiste agli interventi del tempo e si conserva in- tegro.
Potremmo definirli doni del mare quelli che Ianni dipinge con riferimenti estetici diversi: interpretati in accezione molto personale guar- dano alle poetiche dell’oggetto, a partire da Ar- man e dai procedimenti operativi del Nouveau Réalisme. Basti pensare alle «accumulazioni» di sassi, pietre in resina, biglie, perline, presenti nel ciclo “Perimetra” degli anni 2000 - 2002, in cui la materia, prelevata dai luoghi della vita e della natura, vestiva lo spazio deputato alla gestualità pittorica, conoscendo una nuova collocazione
lungo i perimetri delle cornici.
Instancabile nella ricerca sin da quando era bambino, Ianni rimane affascinato anche dall’uso di tessuti diversi e da una cromia più cupa e misteriosa - antitetica al bianco - che tro- va nel colore nero la massima espressione. La se- rie delle nature morte si delinea, in questo caso, su raffinati tessuti damascati, in cui gli animali marini spiccano su trame nere e brillanti, crean- do un gioco dicotomico fra il tratto bianco e il supporto corvino, anch’esso sigillato da nylon trasparente. La curiosità lo porta a sperimentare e a rivisitare anche i linguaggi del secondo ‘900, accostandosi, in alcuni casi, ad una pittura che si fa segnica: lettere dell’alfabeto si accostano alle silhouettes dei pesci, descrivendo un alfa- beto che non trova significato nel tradizionale sistema fonetico, ma che afferisce alla più pro- fonda sfera della conoscenza del sé.
I “Notturni”, invece, sono narrazioni poetiche su cui si scrive la struttura bipolare luce-buio: un gioco di anti luce - potremmo dire - che na- sce su distese nere di pelliccia in cui i bagliori, in lontananza, suggeriscono storie infinite.
La voce tace, il pensiero vive e si perde fra quegli scogli che il tratto decide di non svelare, di non
descrivere, perché di notte tutto è e allo stes- so tempo non è. Quel che si osserva sarà altro, quando il sole sarà tornato a sorgere lungo la li- nea dell’orizzonte: ciò che prima appariva come deserto tornerà a pullulare in modo frenetico. Di notte c’è una natura che si muove e fluttua a dispetto di ogni più temibile logica umana e che sopravvive a qualunque pensiero demolito- re. Nei “Notturni” di Ianni sembra poter rico- noscere gli echi di Van Gogh, quando affermava che «spesso la notte è molto più viva e colorata del giorno». Ed è proprio così: la vita si accen- de nei notturni di Ianni, come nell’opera in cui l’artista riporta l’espressione “forever young”, in ricordo della composizione presentata alla quarantatreesima edizione del “Giffoni Film Festival” 2013 e che trovava ispirazione in un brano degli Alphaville del 1984: «Youth’s like diamonds in the sun and diamonds are forever». La mostra “Fluctus” guarda con prepotenza al mare, ma trova anche luogo di riflessione nella sezione dedicata ai paesaggi: opere che pongo- no al centro colori e profili montani a cui Ianni ha guardato per anni e in cui, probabilmente per molto tempo, ha trovato la sua principale fonte di ispirazione. Una produzione artistica
che evoca il ciclo “Materiali del sogno” degli anni Novanta e che presenta nella lavorazione dei “perimetri” una peculiarità ideativa e creati- va, oggi rivisitata in chiave diversa. Nel caso di Stefano Ianni, infatti, si supera il concetto tra- dizionalmente inteso di cornice quale elemento decorativo che all’opera si accompagna per defi- nire e circoscrivere lo spazio in cui l’estro si con- cretizza. Nei paesaggi di Ianni la cornice non è più ciò che separa il “dentro” e il “fuori”, non è più strumento anonimo che si frappone fra la grammatica dell’opera e la parete in cui l’ope- ra stessa si colloca. La “cornice” diventa cam- po di sperimentazione, così come accadde per le avanguardie storiche: futurismo, dadaismo, surrealismo. Essa diventa oggetto da intagliare, elaborare con sapienza artigianale e far rivivere artisticamente insieme all’opera stessa. Il colore, che l’artista dispone con tecnica mista su carta, deborda e dialoga direttamente con i perimetri in legno. La “cornice” non divide, ma unisce, diventa terreno fertile in cui muoiono il concet- to di bordo e quella netta dialettica tra pieno e vuoto. Una partitura privilegiata su cui scrivere le infinite possibilità che, sulla scia di una ap- passionata ricerca materica, prendono vita fra
il quadro vero e proprio - inteso come insieme di segni e pigmenti pittorici - e la fisicità di un mondo esterno che vive al di là dell’opera. Così come accade in una soluzione altra e più speri- mentale, ben rappresentata da “Acquario”: il pe- rimetro non è più costituito da legno scolpito, ma da polimeri dalle vivaci cromie, che l’artista modella al fine di raggiungere una visione bidi- mensionale e quasi carnale al tatto.
Infine, al posto giusto, in quel luogo in cui si liberano i ricordi più veri, quelli che mai la di- menticanza potrebbe vincere, si colloca solitaria l’opera “Mostri gentili”: l’artista la realizza ispi- randosi all’immagine di copertina, da lui stesso creata, per l’omonimo libro di poesie (Noubs edizioni, 2011), scritto da Anna Ventura. Su uno sfondo giallo ocra, due piccole figure orien- tali sorridono a chi osserva. L’occhio si pone in ascolto e tutto, in “Fluctus”, sembra rivivere in quei versi che l’artista ha letto e interpretato: «Un pescatore e suo figlio bambino / stavano sulla barca, / quando videro emergere dal mare un busto di donna... In quella notte sul mare, una magia / aveva fermato gli orologi: il padre / si era confuso nel tempo, il figlio / era cresciuto assai».





Un tuffo nel mare. Un elemento in continuo movimento e simbolo del divenire. Tradotto in pittura da una decisa sperimentazione di nuovi materiali. Con un occhio alla tradizione

Ha inaugurato il 17 luglio scorso la mostra di Stefano Ianni  nelle sale Cascella dell’Aurum a Pescara. Il titolo "Fluctus” rimanda al modo con cui «i latini chiamavano l’onda del mare tutelata dal dio Nettuno», come scrive in catalogo Alessandra Angelucci, curatrice della mostra. 
E Fluctus - ultima ricerca artistica di Stefano Ianni - ha come temi principali proprio il mare e le sue creature. «Il termine Fluctus - spiega l’artista - ha molteplici significati. Quello relativo al flutto marino e quindi al suo habitat naturale, ma anche quello che rimanda ad un continuo divenire in cui la realtà è sempre uguale e al contempo sempre diversa».

Un modo di guardare questa realtà dove il colore predominante è il bianco inteso come omaggio a quegli aspetti fondamentali della tradizione. Dunque l’artigianalità del fare artistico che in Stefano Ianni prende le mosse dai supporti, dai loro formati, dalle loro dimensioni, dalle tecniche, in continuo divenire. La superficie bianca, nella sua assoluta luminosità, è un chiaro riferimento al fondo gesso della tela. 
Una tradizione, quella a cui rimanda Ianni, che però non pone limiti alla sperimentazione. Per questo spesso i fondi usati sono materiali diversi: "sensibili”, esaltano sia la densità che la luminosità delle superfici, evidenziando l’aspetto iconografico della sua ricerca. Compare così la pelliccia che diventa leit motiv nelle opere dell’artista, dal suo primo rimettersi in gioco dopo il sisma del 6 aprile 2009 che all’Aquila, sua città di origine, ha distrutto anche il suo studio. Da quella data Stefano Ianni vive a Montesilvano, sul mare. Sarà per questo che, a cinque anni da quell’evento, il suo immaginario è oggi popolato da un mondo marino fatto di creature idealizzate che sono la logica evoluzione del ciclo immediatamente precedente a Fluctus: "Still lives and memories in fur” in cui rappresentava nature morte, costituite da pesci, e ricordi in pelliccia dei notturni della costa adriatica. 
Ma il mondo animale ha sempre affascinato il nostro, fin dagli inizi negli anni Ottanta, quando fa il suo esordio con opere in cui il tema centrale era "Cavallinità e labirinti”. Da quei  lavori, presentati nelle prime mostre da Enrico Crispolti, in questi tre decenni Stefano Ianni ha sviluppato molti cicli di ricerca in cui l’aspetto dell’animalità è stato spesso ripreso. Ma la mostra allestita all’Aurum di Pescara apre uno squarcio anche sulla terra d’origine di Ianni, fatta di montagne, vette aguzze e sassose. Fluctus presenta infatti anche un nucleo di opere che propone paesaggi montani, così da ribadire il legame con la propria terra: L’Aquila. 
Presente anche il rimando ad alcuni schemi del ciclo "I materiali del sogno” del 1993, in cui le cornici scolpite e decorate si fanno opera d’arte e in cui gli skylines della propria terra tornano di prepotenza a ribadire l’imprinting che ogni essere umano si porta dentro anche cambiando città e modo di vivere, quando la realtà diventa per forza di cose un continuo divenire. 

Angela Ciano

pubblicato venerdì 1 agosto 2014, su exibart.com


Testi in catalogo della mostra "Mar giallo" presso la Galleria Russo Art ad Istanbul, dal 27 aprile al 27 maggio 2017


L’INFINITO MARE GIALLO DI STEFANO IANNI
di Angela Ciano
E’ un infinita distesa di colore. Intenso, carico, purissimo.  Ti abbaglia e allo stesso tempo ti invita a guardare, all’azione, alla gioia e al gioco. La nuova ricerca estetica di Stefano Ianni ha la capacità di attirare immediatamente l’ attenzione e di portare la mente e il pensiero dentro un mondo saturo di giallo. Un colore che è, secondo la  “Teoria dei colori” di Johannes Itten, “ ….la più alta sublimazione della materia ad opera della luce, irradia luminosità diffusa, priva di trasparenza, lieve come pura vibrazione”.   
Ed è appunto “Mar Giallo” il titolo del nuovo lavoro che Stefano Ianni ha concepito come tanti moduli interscambiabili ed essenziali l’uno all’altro perché insieme creano un unicum visivo di grandissimo impatto. Nasce così, questo ciclo che, ancora una volta, utilizza i materiali più disparati: tessuto di pile, tavola, gomma piuma e, naturalmente colori e pennelli. A ribadire,  se mai ce ne fosse bisogno, l’importanza e l’imprescindibilità del fatto artistico. Il pensiero creatore è legato a doppio filo all manualità del fare; la capacità di realizzare l’opera pensata è essa stessa fatto artistico. 
Inizia allora un vero e proprio viaggio di scoperta guidati da un’onda gialla che ti fa imbattere in indefinite creature marine che, come tutta la composizione, hanno il tratto denso e potente che semplifica e cancella i particolari e né evidenzia la forza e la capacità di attrazione. Sono “Mostri Gentili” che guidano lo spettatore a non perdere la rotta dell’esperienza visiva e, al tempo stesso, sono elementi che ci riportano alla realtà, al nostro ambiente, che sia mare, terra o cielo. Sono queste creature  a prenderti per mano e a narrarti la storia di Mar Giallo, a raccontarti l’emozione di un luogo ancestrale fatto di mistero, dominato dalla bellezza e dalla purezza di una forza vitale e positiva.  “Tutti questi lavori recenti, legati al cambiamento radicale della mia vita dopo il terremoto che ha distrutto la mia città, tendenzialmente si offrono al pubblico. Quando ho iniziato ad utilizzare pelliccia sintetica, quando non è messa sottovuoto, volevo che le mie opere fossero toccate, era un modo per far interagire il pubblico con il mio lavoro. Adesso l’elemento dirompente è il giallo. Questo tipo di giallo molto forte ed intenso, molto saturo e carico che suggerisce il massimo della positività. E’ un colore molto vicino alla spiritualità del bianco, allo stesso tempo però ha una grande carica di energia fisica, residuo della luce solare. Insieme a questa forza vitale c’è il tema del mare che deriva  sia dalle dimensioni del lavoro, perché ho realizzato oltre cinquanta  pannelli, sia dagli elementi visivi che dialogano con il giallo. Anche questi sono resti delle mie ricerche precedenti sulla natura morta. Residui di una realtà che fanno parte della mia memoria e che possono riaffiorare in ogni momento a volte più definiti, a volte più essenziali o indistinti. Sono sempre però ritorni che diventano elementi narrativi”. Solo che ora questi elementi hanno una forza maggiore e sono come sottolineati dal tratto più deciso che ne delinea i contorni. “Sono residui meno veri ma più forti perché vanno a comporre un unico lavoro di 52 elementi ed essi, necessariamente, hanno bisogno di un segno più marcato per prevalere o meglio per non essere soffocati dal ritmo geometrico di una  composizione così grande”
Un flusso di energia vitale che va e viene proprio come il flutto del mare, declinato nel colore che più di ogni altro sprigiona vitalità. Ed è questa idea del ritorno continuo ad accompagnare da sempre il lavoro di Ianni e che deriva dal precedente ciclo “Fluctus”, per i latini l’onda marina tutelata dal dio  Nettuno, ma che si può rintracciare in tutta la sua ricerca fin dagli esordi negli anni ottanta. A distanza di trent’anni e di fronte a questo Mare Giallo l’impatto di novità è immediato. E’ la prima importante impressione. Quella che ti abbaglia e ti impone di guardare oltre. Ed è questo andare oltre che porta a scoprire cosa c’è realmente dentro tutto questo Mare di Giallo. “Questo lavoro è la diretta conseguenza del ciclo precedente sul quale già intervenivo con supporti precolorati, usando in quel caso pellicce sintetiche di vari colori. Da questa ricerca sui materiali sono emerse alcune peculiarità che ho voluto approfondire. In un’opera  quasi completamente gialla intitolata  Mostri Gentili, che illustra la raccolta di poesie omonima di mia madre Anna Ventura, io ritrovo i germogli che mi hanno portato a questo nuovo lavoro insieme anche ad una serie di opere dove la materia è messa sottovuoto e dove su tutto, domina il giallo. Da qui ho iniziato a sviluppare una ricerca fatta di tanti pannelli di questo colore che, insieme, danno grandi possibilità di composizione, ma anche il senso ondivago del flusso del mare. Ribadendo così l’andare e venire del flutto che è poi il senso di ogni mia ricerca che torna spesso su se stessa. In questo caso è stata un’ondata così grande da dare vita ad un vero e proprio mare, giallo”
Come per il maestro Mark Rothko, che ha fatto del colore la sublimazione spirituale del suo fare artistico, anche per Stefano Ianni l’opera è un universo che esiste in funzione dell’osservatore, è pensata perché esso ne faccia parte e possa compiervi un’avventura, così l’ esperienza dell’artista è tesa a predisporre tale avventura. Lo spettatore – fruitore è chiamato ad essere in qualche misura comprimario, non della redazione dell’opera, ma di un comune progetto spirituale che coniuga la narrazione con la visione. 
E in Mar Giallo questo progetto ha il sapore del gioco, dell’allegria che discende dall’invito che ogni pannello o modulo fa allo spettatore chiamato a sperimentare con il tatto e finanche, se si potesse, a scomporre e ricomporre i tanti tasselli secondo la propria sensibilità, scombinando così i piani dell’artista. Per perdersi nello stesso mare.

Ed è qui che sta il bello. 




Mare Giallo

“Mare giallo” è il titolo della serie di opere che Stefano Ianni sta producendo da due anni: un titolo impegnativo, che richiede riflessione sia sui singoli termini, che sulla loro relazione.   

Mare
Il mare evoca il pensiero e il pensiero evoca il mare: insieme condividono la stessa rotta, sono la bussola che indica il percorso ai natanti per iniziare la “navigazione”. 
Il pensiero è nato  ai bordi dell'acqua, nelle città del Mare Nostrum. 
Talete sosteneva che l'elemento liquido costituisce la sorgente del mondo; 
Kant, che l'obbiettività è come un atollo circondato da un esteso e impetuoso mare, 
Nietzsche sottolinea, del mare, il silenzio sospeso; 
Foucault, narra  la perdita di senso e significato del mare; 
Si potrebbe (forse) affermare che il mare stimola il pensiero, come il cervello è stimolato dal Liquor in cui è immerso.


Mare, mare
La sola pronuncia del sostantivo “mare” evoca, in sé, sensazioni e caratteristiche diametralmente opposte: calma e tempesta; superficie e profondità; linea d'orizzonte e infinito. 
Herman Melville, si spinge oltre: descrive il mare  come un'infinita prateria.


Giallo
Anche il simbolismo del giallo si collega a sensazioni ambivalenti; da un lato il giallo caldo, oro che si potrebbe definire il “giallo della vita”; dall'altro il giallo stridulo, freddo, che si può intendere come giallo della malattia e della morte: il transito continuo tra due estremi crea ambiguità e produce immaginazione.


...ancora giallo  
Il giallo è grammaticalmente, nel titolo scelto da Ianni, un aggettivo, ma assume, per la sua forza insita, il ruolo di un sostantivo: in questa accezione il giallo, semplicemente, è.


Parallelepipedi + Polartec 200/300

                                                   “La colza è tutta fiorita
                                                     il globo solare a levante
                                                     e la luna a ponente”

questo Haiku giapponese evoca le categorie di giallo presenti nel “mare” di Ianni, un giallo caldo, che tuttavia viene raffreddato dalla “pelle” di nylon che lo ricopre e che lo rende oleoso, atto a conservare, sottovuoto, i pesci (o la loro forma) che lo popolano. “Ombre” e “presenze” dipinte su tessuto di pelo sintetico “Polartec 200/300”, montato su tavole 30x40 e 30x50 a formare tanti parallelepipedi che compongono, come nella meccanica quantistica, la “materia”. Mattoncini che possono coprire, idealmente, spazi infiniti, che, come nel “gatto di Schrödinger vivono il paradosso della contemporaneità degli eventi,  sono al tempo stesso relativistici, in quanto si adeguano allo spazio che li ospita, e assoluti nella ripetizione automatica e senza ripensamenti del soggetto.



Pesci
 I pesci nello scorrere filmico della serie, subiscono nel tempo una mutazione emotiva, passano dall'espressione viscerale e materica, alla sospensione metafisica: gli occhi, ben visibili, sono tondi e la bocca è aperta, senza respiro; “la pelle”, differentemente dalla prima parte del percorso,  non lascia intravedere la materia “macerata dall'olio”. 


“Grande giallo”
L'ultima opera di Stefano Ianni è il “Grande giallo”. Composta da 52 pannelli, rappresenta concettualmente una tappa fondamentale del suo percorso; si sviluppa su una superficie molto ampia (200X360 cm) in cui  immerge completamente l'osservatore. L'istallazione verticale della composizione contrasta con il bisogno rassicurante di un “mare orizzontale “ e rafforza il senso di spaesamento dello spettatore.   






                                   Marco Brandizzi   


   





























































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